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Dieci traduttori letterari sull’arte della traduzione

Emily Temple SUR, Traduzione Lascia un commento

Quali caratteristiche deve avere un buon traduttore? Bisogna leggere il libro prima di mettersi al lavoro? Quali sono gli errori più comuni da evitare? Emily Temple indaga sulle diverse scuole di pensiero fra i traduttori letterari. 
Il pezzo, uscito originariamente su Literary Hub, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice e della testata.

[qui tutti gli articoli sulla traduzione del nostro blog]

di Emily Temple
traduzione di Isabella Greco

Quest’anno, per la prima volta, la National Book Foundation ha indetto il National Book Award for Translated Literature, un premio dedicato alle opere in traduzione. Com’era senza dubbio intenzione del comitato, il premio non solo ha contribuito a celebrare la grande letteratura in traduzione (e i traduttori), ma ha dato anche un nuovo stimolo agli amanti dei libri in America a continuare a leggere opere tradotte e, per alcuni, fermarsi a pensare per la prima volta alla traduzione come genere letterario. Dopotutto, di imprese letterarie più magiche di questa – e misteriose, per quelli di noi che non conoscono la lingua del testo di partenza – ce ne sono poche. (Quando andavo all’università, una persona mi ha detto che avrei imparato il russo facilmente e nel giro di pochi mesi se solo mi fossi seduta e rimboccata le maniche leggendo Il Maestro e Margherita in lingua originale, con un dizionario a portata di mano. (Caro lettore, non ha funzionato.) Proprio perché sono interessata a questo mondo, come probabilmente lo siete anche voi, e ben consapevole di poter solo scalfire la superficie dell’intrigante mondo della traduzione, ho fatto un’indagine su quello che alcuni professionisti del settore avevano da dire sul mestiere. Ampliate pure questa lista a vostro piacimento.

 

Lara Vergnaud, traduttrice inglese di Mohand Fellag, Joy Sorman, Marie-Monique Robin, Ahmed Bouanani e Scholastique Mukasonga, tra gli altri:

 La traduzione è una professione singolare. Si deve cogliere la voce di un autore che scrive in una determinata lingua e trasportarla in un’altra, non lasciando che una debole traccia del trasferimento. (La straordinaria traduttrice Charlotte Mandell ha definito questa trasformazione «Qualcosa di diverso eppure la stessa cosa»). Sebbene gli sia risparmiata l’angoscia del blocco dello scrittore, il traduttore deve comunque confrontarsi con la pagina bianca e riempirla. Il timore: essere così immersi nel testo di partenza, attenersi così strettamente alla lingua originale, che la prosa che ne scaturisce è affettata e goffa o, peggio ancora, illeggibile. Eppure l’immersione totale è inevitabile. Anzi, è necessaria.

Come il ghost-writer, anche il traduttore deve infilarsi in una seconda pelle. A volte questa transizione è delicata, discreta, priva di violenza. Altre invece l’insediamento è brusco, rumoroso e perfino sgradevole. Le strategie di «immersione totale» che vanno oltre le semplici tecniche di traduzione possono essere d’aiuto: riuscire a estrapolare i riferimenti (libri, film, musica) per ricostruire i modelli culturali dell’autore; leggere dei passi ad alta voce, prima in originale e poi in traduzione, finché non sopraggiunge la raucedine; dar vita al racconto dell’autore attraverso i sensi, usando il naso, le orecchie, gli occhi e le dita; divorare ogni suggerimento al fine di rendere le varie sfumature della voce dell’autore (humor, rabbia, dolore, distacco) nella mia traduzione.

– Dal saggio di Laura Vergnaud del 2018 «Translation, in Sickness and in Health»

 

Jhumpa Lahiri, traduttrice inglese dei romanzi di Domenico Starnone:

 Inutile dirlo, tradurre Starnone arricchisce il mio vocabolario italiano e rende più profonda la mia comprensione della sintassi di questa lingua. Mi mostra nuovi ritmi della frase. Ma, oltre a ciò, ho il grande privilegio di poter analizzare in maniera approfondita come sono congegnati i suoi romanzi, di esplorarne la struttura e il tessuto di sostegno. Non c’è lezione migliore per uno scrittore. Tradurre va al di là del semplice leggere; è un atto viscerale e non solo intimo, e ti colpisce, ti insegna in un modo del tutto nuovo […] Per me tradurre è più piacevole di scrivere fiction, poiché sono in una stretta relazione con un testo che ammiro moltissimo, avida di appropriarmi di tutto ciò che ha da offrire. Metto in dubbio ciò che sto producendo, ma quel dialogo con il testo originale mi stimola, mi tiene compagnia, mi mantiene a galla. Scrivere invece è un monologo intenso, un atto di profonda solitudine. Un luogo in cui non ho scampo da me stessa e, paradossalmente, un luogo di libertà assoluta.

– In un’intervista del 2018 con Cressida Leyshon.

 

Vladimir Nabokov, traduttore inglese di Pushkin, tra gli altri:

Si possono distinguere tre diversi gradi di malvagità nel bizzarro mondo della trasmigrazione verbale. Il primo, di minore importanza, comprende gli errori ovvi dovuti a ignoranza o a conoscenza ingannevole. Si tratta di semplice fragilità umana e sono quindi giustificabili. Il successivo passo verso l’Inferno lo compie il traduttore che tralascia intenzionalmente parole o passi che non si preoccupa di comprendere o che potrebbero apparire oscuri oppure osceni a un pubblico di cui non si è fatto che un’idea approssimativa; accetta senza il minimo scrupolo l’espressione vacua del suo dizionario; o sottomette l’erudizione all’eleganza: è pronto a saperne meno del suo autore ma allo stesso tempo pensa di saperne di più. Il terzo, nonché il peggior grado di turpitudine, lo si raggiunge quando un capolavoro viene appiattito e levigato, ignobilmente abbellito, per adeguarsi alle opinioni e ai pregiudizi di un determinato pubblico. Questo è un crimine, da punire con la gogna come veniva fatto con i falsari ai tempi delle scarpe con le fibbie.

[…]

Possiamo quindi dedurre i requisiti che il traduttore deve possedere per essere in grado di produrre una versione ideale di un capolavoro straniero. Prima di tutto deve avere lo stesso talento, o, quanto meno, lo stesso tipo di talento dell’autore che ha scelto. In questo, ma soltanto in questo, Baudelaire e Poe o Joukovsky e Shiller furono dei compagni di giochi ideali. In secondo luogo, deve conoscere a fondo le due nazioni e le due lingue e sapere perfettamente tutti i dettagli relativi allo stile e alle tecniche del suo autore; deve inoltre essere consapevole del contesto sociale delle parole, dei loro usi, della loro storia e di come vengono associate nel periodo. Quanto detto ci porta al terzo punto: oltre ad avere talento ed essere preparato, il traduttore deve possedere il dono del mimetismo ed essere in grado di recitare, per così dire, la parte dell’autore impersonando i suoi vizi stilistici e di linguaggio, i suoi modi e il suo pensiero, con il massimo grado di verosimiglianza.

– Dal saggio di Nabokov del 1941 «The Art of Translation».

 

Ann Goldstein, traduttrice inglese dei romanzi napoletani di Elena Ferrante:

Devo terminare la prima stesura rapidamente. Ma credo che Lydia Davis consigli di non leggere nemmeno il libro prima di iniziare a lavorare. Penso sia fondamentale sapere cosa succede alla fine per riuscire a rendere il giusto tono fin dall’inizio. Non si tratta delle singole parole. Non si tradurranno ogni volta allo stesso modo. Anche se ho sentito un traduttore – forse era Linda Coverdale – dire che era proprio quello che cercava di fare. A dire il vero sembra che ora esistano dei programmi che ti dicono come hai tradotto una parola nelle occorrenze precedenti. Non riesco a immaginarmelo! Forse potrebbe essere utile […] Ma, ad ogni modo, penso che si debba sapere cosa succede alla fine per essere fedeli fin dall’inizio in termini di linguaggio. Sono certa che se rileggessi ora tutti i romanzi napoletani probabilmente farei delle scelte diverse. Cambierei perfino la struttura delle frasi […] non sto dicendo che eliminerei i costrutti asindetici, perché credo che abbiano uno scopo e sono presenti nella versione italiana. Solo che nell’inglese ho dovuto modificarli un po’ – è davvero troppo difficile in inglese. Non so, non sono in grado di dire che cosa avrei potuto fare diversamente. Avrei potuto fare meglio o peggio, avrei potuto cambiare il ritmo. È sempre un rischio nella traduzione, non fai che ripensare alle tue scelte finché a un certo punto diventa inutile interrogarti.

– In un’intervista del 2016 con Melinda Harvey.

 

 Idra Novey, traduttrice inglese de La passione secondo GH di Clarice Lispector, fra gli altri:

Ho scoperto che la parola traduzione comincia con il prefisso «tra» per un motivo. Come trascendenza e trasformazione, presuppone l’idea di acconsentire a procedere nell’incertezza, qualità fondamentale per gli autori che vogliono scrivere e andare oltre a ciò che comunemente ci si aspetta da un romanzo. Il prefisso «tra» viene dalla parola latina «trans», che vuol dire «attraverso» […] In una traduzione, giocare con lo stile è tutto. Lo scrittore stabilisce la trama e personaggi. Le scene iniziali e finali sono già lì, in attesa. Quello che il traduttore deve fare è cercare di capire quale musicalità, tono e cadenza ricreeranno una rappresentazione degna di essere tradotta delle scene descritte dall’autore. Anche i programmi dei Master in discipline artistiche possono insegnare molte di queste abilità, ma la formazione stilistica del traditore insita nell’atto del tradurre è alla portata di chiunque sia in possesso di una tessera della biblioteca o abbia accesso a internet.

– Dal saggio di Novey del 2016 «Writing While Translating».

 

Lydia Davis, traduttrice inglese di Madame Bovary di Gustave Flaubert, tra gli altri:

Ecco qui i primi due piaceri della traduzione: (1) il piacere di scrivere; e (2) il piacere di risolvere un enigma.

  • Traducendo, si costruiscono delle espressioni e delle frasi che, almeno in parte e il più delle volte, ci soddisfano. Si ha il piacere di lavorare con il suono, il ritmo, le immagini, la retorica, la forma dei paragrafi, il tono, la voce. E – importante differenza – si ha questo piacere della scrittura nell’insularità del testo assegnato e nel suo perimetro definito. Non si è assaliti da quella spiacevole inquietudine, l’inquietudine dell’inventare, la responsabilità di inventare un’opera di proprio pugno, un’opera che potrebbe avere successo ma anche fallire, e il cui successo o fallimento è imprevedibile.
  • Traducendo, poi, si risolve sempre un problema. Un rompicapo, un ingegnoso, complesso rompicapo che richiede non solo una buona dose di abilità, ma anche un po’ di arte o astuzia. Tuttavia questo rompicapo, per quanto complesso, conserva sempre un po’ della stessa attrattiva che hanno i problemi posti da giochi di parole molto più semplici o intellettualmente limitati – un cruciverba, un anagramma, un codice.

– Dal saggio di Davis del 2016 «Eleven Plasures of Traslating».

 

Elena Marcu, traduttrice rumena del romanzo di James Baldwin La stanza di Giovanni:

Quando traduci Baldwin ci sono almeno cinque modi diversi per dire la stessa cosa che ha scritto lui, e il più delle volte, nessuno sembra andare bene del tutto.

La stanza in cui lavoravo non era mai completamente tranquilla. Leggevo ogni frase che traducevo a voce alta per cercare di capire come suonavano le mie parole. Si sentiva la mia voce? Cambiala! E così via. Ancora e ancora. Quando è il libro a parlare, io devo rimanere muta.

Alla fine mi sono data una scadenza per portare a termine la traduzione. Non sono davvero sicura di essere veramente soddisfatta del risultato, e forse non lo sarò mai. È strano pensare che ci siano così tanti cambiamenti da fare per avvicinarsi all’essenziale. Per riuscire a mantenere quella freschezza e raffinatezza del linguaggio, pensiero ed emozione, per fare delle modifiche che mantengano intatti il significato e il tono, in una lingua così diversa, per preservare il pensiero di Baldwin in tutta la sua intensità, per sfuggire agli schemi mentali che rendono i traduttori ciò che sono.

I traduttori devono essere invisibili. Non devono lasciare tracce, ricordavo a me stessa. Devono vivere in silenzio in ogni parola che hanno battuto ma che non sono stati loro a scrivere. Devono proiettare, riflettere, non imitare. Devono diventare qualcun altro. Devono a sé stessi il tentativo.

– Dal saggio di Marcu del 2018 «The Joy and Terror of Translating James Baldwin’s Giovanni’s Room».

 

Mark Polizzotti, traduttore inglese delle opere di Gustave Flaubert, Marguerite Duras e André Breton:

Se pensiamo al traduttore come al «servitore» del testo originale, con l’incarico di forgiare un equivalente che sia il più fedele possibile, allora ogni deviazione dalla sua sintassi o struttura, che sia scaturita da egotismo, incompetenza o pregiudizi culturali, sarà certamente vista come un tradimento. Se invece prendiamo i traduttori per degli artisti di diritto, in un rapporto di collaborazione (piuttosto che di subordinazione) con i loro autori; se pensiamo alla traduzione come a un processo dinamico, una forma privilegiata di lettura in grado di illuminare l’originale e di trasferirne l’energia in un nuovo contesto, allora la trasposizione di un’opera letteraria in un’altra lingua e in un’altra cultura diventa qualcosa di decisamente più significativo. Offre un nuovo modo di vedere il testo e, attraverso quel testo, un mondo. Nel migliore dei casi, permette la nascita di un’opera letteraria del tutto nuova, al tempo stesso subordinata e indipendente da quella che l’ha ispirata – un’opera che né segue ossequiosamente l’originale, né ci vuole competere, ma che piuttosto aggiunge un valore tutto suo all’insieme delle letterature mondiali. Ciò non significa prendersi delle libertà eccessive; significa piuttosto rendere omaggio all’originale raccogliendo tutto il proprio talento e la propria creatività per rendergli giustizia in un’altra lingua.

Per rispettare un’opera nel modo più fedele possibile, per ricrearla nei suoi aspetti più belli e più brutti, nella sua grandezza e nella sua insignificanza, ci vogliono sensibilità, empatia, flessibilità, conoscenza, attenzione, cura e tatto. E forse, soprattutto, ci vuole rispetto per il proprio lavoro, la convinzione che la propria traduzione possa essere giudicata per i suoi meriti (o difetti) e che, se ben fatta, possa stare fianco a fianco con l’originale.

– Dal saggio di Polizzotti del 2018 «L’art de la traduction».

 

George Szirtes, traduttore inglese di Imre Madách, Sándor Márai e László Krasznahorkai, tra gli altri:

Quando traduco fiction in genere leggo il primo capitolo, o giù di lì, e poi mi metto all’opera. È un approccio tutt’altro che accademico. O, se la vogliamo dire in modo più gentile, non è un approccio pedante. Ascolto con attenzione il timbro della voce dell’autore e ne cerco uno che renda altrettanto bene in inglese, che sia in grado di trasferire in quella lingua la stessa esperienza che potrebbe fare un lettore nativo leggendo l’ungherese. La narrazione parte da lì.

Quando pensiamo alla traduzione ci vengono subito in mente i dizionari, ma quello è solo l’inizio. L’accuratezza letteraria implica i concetti di effetto, ritmo, registro, intensità e molto altro. Non esiste sempre il perfetto equivalente di una parola o di un’espressione: è l’effetto che conta. L’effetto è in parte un giudizio soggettivo, ma anche la scrittura lo è. È impossibile rendere il tono del gergo di Budapest in inglese. La parola «malinconia» non ha la stessa sfumatura dell’ungherese «bús» (che si pronuncia booosh), che evoca un’intera epoca letteraria, quindi si deve trovare un modo per richiamare la medesima sensazione.

La maggior parte degli autori che ho tradotto sono morti da molto tempo. I morti non trovano da ridire. I migliori tra quelli viventi, come ad esempio László Krasznahorkai, «ascoltano» la traduzione tanto quanto l’opinione dell’editor e si fidano del traduttore, che è imperfetto per definizione. Ci sentiamo raramente quando sto lavorando a una sua traduzione.

– Come riferito al The Guardian nel 2016.

 

Saskia Vogel, traduttrice inglese di Karolina Ramqvist, tra gli altri:

Non miro a una fedeltà scientifica in traduzione. Traduco in modo che il lettore possa, prima di tutto, sentire il libro. Concentrandomi sulle sensazioni cerco di compensare quello che inevitabilmente si perde; forse tali strategie sono le basi dello stile di un traduttore. Ma credo di essermi concentrata troppo sulla parola perdita. Anche tentativo è una parola importante. Tentativo implica uno scarto – tra l’immaginazione e la lingua, lo scrittore e il testo, il testo e il traduttore, il testo e il lettore. In un saggio intitolato «It’s the Night», Ramqvist descrive come senta la scrittura muoversi dal suo corpo e manifestarsi nel lettore, emergendo dentro di loro. È in questo luogo soggettivo che un libro viene compreso appieno. Ma al contrario del traduttore, il lettore non ha l’obbligo di riferire a nessun altro ciò che il libro comunica, e deve solo pensare a quello che il libro comunica a lui. Esattamente come fa il lettore quando legge, la traduzione è convogliata attraverso l’esperienza che il traduttore ha del mondo e della lingua. The White City ha preso forma mentre nasceva dentro di me.. Le dure superfici della mia esperienza mi hanno aiutato ad affrontare la distanza tra il romanzo svedese e la mia traduzione inglese. Erano strumenti. Allo stesso modo, forse, anche lo spazio tra un testo e una traduzione è uno strumento. Uno spazio per la perdita, uno spazio per tentare. Un’indeterminatezza che non dovrebbe essere temuta ma abbracciata, e che nella sua forma più raffinata potrebbe infondere del desiderio, come fanno il lusso o la calma, per via dello spazio che lascia aperto all’interpretazione. Perché ci fa venire voglia di decifrare il codice.

– Dal saggio di Vogel del 2017 «The Swedish Gangster’s Wife’s Bag»

 

© Emily Temple, 2018. Tutti i diritti riservati.

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