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Elena Poniatowska, Premio Cervantes all’autenticità

redazione Interviste, Ritratti, SUR

Lo scorso 23 aprile Elena Poniatowska ha ricevuto il Premio Cervantes, riconoscimento prestigioso, come un Nobel della letteratura in lingua spagnola. Presentiamo oggi un articolo di Gianni Proiettis uscito su Pagina99 in occasione della premiazione, ringraziando l’autore e la testata.

«Elena Poniatowska, il Messico e le parole per combattere»
di Gianni Proiettis

La scrittrice messicana Elena Poniatowska ha ricevuto oggi il Premio Cervantes, considerato il Nobel della letteratura in lingua spagnola. È la quarta scrittrice a ricevere il prestigioso premio, creato nel 1975 e dotato di 125mila euro, consegnato dal re di Spagna durante una cerimonia nell’università Alcalá de Henares. La motivazione della giuria, presieduta dal direttore della Real Academia Española de la Lengua, José Manuel Blecua, cita la sua «brillante traiettoria letteraria in diversi generi, in modo particolare nella narrativa e nella sua esemplare dedizione al giornalismo». E prosegue: «La sua opera si segnala per il solido impegno con la storia contemporanea. Autrice di opere emblematiche che descrivono il xx secolo da una prospettiva internazionale e integratrice, Elena Poniatowska costituisce una delle voci più poderose della letteratura in lingua spagnola dei nostri giorni».

Come in quel film di Woody Allen in cui il protagonista scende dallo schermo per entrare nella vita reale, Elena Poniatowska sembra uscita da uno dei suoi libri, protagonista di una biografia altrettanto romanzesca e non meno avvincente di quelle di Tina Modotti, Leonora Carrington o Jesusa Palancares, tre donne che ha fatto rivivere con l’incantesimo della sua scrittura.

Elena Poniatowska Amor è nata a Parigi nel 1932 da Paulette Amor, rampolla di una ricca famiglia messicana espropriata dalla Rivoluzione, e da Jean Evremont Poniatowski, discendente dell’ultimo re di Polonia, Stanislao II, che abdicò nel 1795. I due esiliati del gran mondo si uniscono a Parigi, capitale spirituale degli esuli in quegli anni, dove hanno due bambine, Elena e Kitzia. Nel 1941 Paulette, che ha guidato fino a quel momento un’ambulanza della Croce Rossa, decide di rifugiarsi in Messico con le bambine per fuggire i pericoli della guerra. Jean, che rimane a combattere nella resistenza francese al lato di De Gaulle, le raggiungerà a guerra finita.

E così, neanche decenne, fotografata appena scesa dall’aereo con un orsetto al petto appesa alla mano della madre, Elenita, come la chiamano amici e lettori, sbarca in una terra antica e misteriosa. Trova la magia di due vulcani che erano persone, i tramonti su una città che era ancora «la regione più trasparente dell’aria», i racconti di Magda, la loro balia, fuggita adolescente dalla sua comunità per una delusione con il primo amore. Elena è affascinata da quel nuovo mondo e lo fa suo, lo ama in un modo così completo e intenso che ne diventerà una voce. Appesa alle trecce della sua balia india, vola nei miti e nell’immaginario delle antiche culture indoamericane ed è con le favole di Magda che apprende lo spagnolo. Come Joseph Conrad e Samuel Beckett, Elena Poniatowska Amor edificherà un’opera letteraria di gran pregio scrivendo in una lingua non materna.

«Elena è l’uccellino nel parco della letteratura messicana», ha detto di lei Octavio Paz. Il subcomandante Marcos a suo tempo la chiamò «la mia Dulcinea». Carlos Fuentes l’ha presentata come «Alice nel paese delle testimonianze». La sua produzione letteraria è inestricabile dalla storia del Messico nel secondo Novecento. A ventun anni, nel 1953, Elena entra come cronista e intervistatrice nella redazione del quotidiano Excélsior. Poi passa a Novedades e si fa le ossa in un mestiere che dopo sessant’anni non riesce a lasciare, ma che non le ha impedito di entrare nella letteratura universale. Il giornalismo anzi le ha fornito l’humus della creazione letteraria. E se Lilus Kikus – il suo primo libro, pubblicato nel 1955 – ha l’apparenza di un diario giovanile, rivoluzionario e anarchico come solo l’adolescenza può esserlo, già in Hasta no verte, Jesús mío (pubblicato da Giunti con il titolo Fino al giorno del giudizio) del 1969, troviamo la voce del Messico profondo, quello indio, popolare, che è passato dalla Rivoluzione alla «dittatura perfetta». Storia orale di una soldadera che attraversa il Novecento messicano per diventare una vecchietta amareggiata ridotta a fare la lavandaia in un sobborgo della capitale, la biografia narrata di Jesusa Palancares è un’opera antropologica, storica e letteraria insieme, la cui materia proviene da innumerevoli ore di interviste registrate da Elena, ma è anche un corto circuito amoroso fra i due estremi della società.

Forse però è già da Todo empezó el domingo, una raccolta delle diversioni popolari della domenica pubblicata nel 1960, che si sente che Elenita ha saltato la barricata per stare senza mezzi termini dalla parte degli umili, degli esclusi, degli indios senza voce, in un paese che ha ancora molto, troppo di coloniale e razzista. Lo ha ricordato lei stessa, nel ricevere il Cervantes: «Il silenzio dei poveri è un silenzio di secoli di dimenticanza e emarginazione» (qui il suo discorso alla consegna del premio).

Il suo impegno esplode nell’ottobre del 1968, quando la mattanza di Tlatetolco, in cui centinaia di studenti inermi sono stati massacrati dal presidente Díaz Ordaz nervoso per le imminenti Olimpiadi, viene occultata o giustificata dai grandi media. Relativamente protetta dal suo status sociale – è sposata con il famoso astronomo Guillermo Haro, a cui ha dedicato ultimamente una biografia intitolata El universo o nada – Elena raccoglie le testimonianze dei giovani del movimento studentesco, intervistandoli nel tetro carcere di Lecumberri, dove incontra anche altre vittime della repressione del regime. Nasce così La noche de Tlatelolco, un’opera polifonica che mette insieme il contesto e le voci dei protagonisti di un momento storico di scontro fra l’utopia di una generazione e la ferocia di un regime autoritario che non esita a ricorrere alla strage di Stato.

La noche de Tlatelolco, mai tradotto in Italia ma che in Messico è un libro di culto, dovette aspettare tre anni per essere pubblicato da un editore coraggioso, Neus Espresate. Per ironia fu addirittura premiato dal presidente Echeverría, che come ministro degli interni era stato il responsabile diretto della strage del 2 ottobre. Con coerenza e rigore morale, Poniatowska rifiutò il prestigioso Premio Villaurrutia nel 1971, dicendo: «Chi andrà a premiare i morti?»

Da allora la scrittrice, che prese nel 1968 la nazionalità messicana, non ha mai smesso il suo impegno civile: dal 1985, quando un terremoto fece migliaia di vittime a Città del Messico, al 2006, in occasione delle proteste contro i brogli elettorali, ha appoggiato con la sua presenza e con i suoi scritti. Oggi collabora nel campo della cultura con Andrés Manuel López Obrador, il candidato della sinistra scippato della vittoria nelle due ultime elezioni presidenziali. Elena Poniatowska è di gran lunga la scrittrice più popolare e amata del paese.

E continua a scrivere: articoli, conferenze, romanzi. Sta lavorando a una biografia romanzata di Lupe Marín, la prima moglie di Diego Rivera, di cui ha conservato ore e ore di interviste. Non ha abbandonato l’idea di scrivere una storia dei Poniatowski – uno fu un grande maresciallo di Napoleone, un altro amante prediletto di Caterina la Grande di Russia, altri ancora rinomati politici francesi – anche se l’immensa bibliografia in polacco la spaventa. Intanto viaggia, scrive in difesa delle donne di Ciudad Juárez e dei territori sacri degli Huicholes minacciati dall’industria mineraria, coccola tutti i nipoti e alleva due gattini chiamati Monsi e vais in onore dello scrittore Carlos Monsivais, un altro grande amico che se n’è andato, come Carlos Fuentes e Gabo.

Quando si è scoperta scrittrice? Con Lilus Kikus (1954), quando era già ventenne, o prima?
Già da adolescente, quando studiavo nel Convento del Sacro Cuore a Torresdale, Filadelfia, scrivevo per una rivista studentesca, The Current Literary Coin, di cui mi avevano nominato tesoriera. Non so perché, mi sceglievano sempre per tesoriera. Anche dopo il terremoto del 1985 sono stata tesoriera delle cucitrici, che furono le ultime a essere estratte dalle macerie, quando fondarono un loro sindacato che chiamarono il «19 de Septiembre», data del terremoto.

Di quali scrittori può dire che, leggendoli, le abbiano cambiato la vita?
Ho letto i grandi cattolici francesi da bambina, quando ero scout. In quel periodo, quando Torres Bodet (ministro della Pubblica Istruzione dal 1943 al 1946, ndr) disse che tutti i messicani dovevano insegnare a leggere e a scrivere agli analfabeti, che erano quasi la metà della popolazione, andavo in giro con un quaderno e una matita, cercando clienti per strada. La unica che non riuscì a fuggire fu Magda, la mia governante, alla quale davo un sacco di compiti, che la poverina faceva oltre a tutte le faccende che doveva sbrigare.

Sì, ma le sue letture?
Leggevo i grandi cattolici francesi: Charles Péguy, Jacques Maritain e, quello che più mi impressionò, Georges Bernanos, che scrisse il Journal d’un curé de campagne, in cui un giovane sacerdote si sveglia un giorno, mette i suoi piedi scalzi sul pavimento gelato e dice a se stesso con orrore: «Non ho più la fede». Fu quello che più mi impressionò. Più tardi mi impressionarono Tolstoj, Dostoievskij e altri grandi scrittori, come per esempio la catalana Mercé Rodoreda, autrice de La plaza del diamante, e Clarice Lispector, la brasiliana che creò un personaggio unico: Macabea.

Il “periodismo literario” sembra molto di moda. Ma lei, Carlos Monsiváis e Carlos Fuentes lo praticavate già più di mezzo secolo fa. O sbaglio?
Su Carlos Monsiváis influì molto il New Journalism di Tom Wolfe. Carlos Fuentes si dedicava piuttosto alla saggistica, come dimostrano i suoi libri dell’epoca.

Nella storiografia del Messico ci sono personaggi trascurati che meritano di essere riportati alla luce?
Molti personaggi ingiustamente dimenticati vengono riscattati di recente, come la pittrice e scrittrice Nahui Ollin, di cui sono già uscite due biografie e si sta preparando un film. A proposito di cinema, ho visto ultimamente un film notevole di Diego Luna su un organizzatore storico dei braccianti californiani, il chicano César Chávez. Il film riuscirà a popolarizzare un grande leader poco conosciuto anche dai messicani e aiuterà sicuramente nella soluzione di un grave problema come è quello dei maltrattamenti agli emigranti.

Le sue convinzioni politiche progressiste e la sua militanza in favore della cultura e della libertà di espressione le hanno procurato più problemi o più solidarietà?
Le due cose insieme: problemi con il cosiddetto establishment o con il governo di turno, affetto e solidarietà da parte dei ferrovieri, i muratori, gli operai, la gente comune.

Crede nella reincarnazione, come Jesusa Palancares?
Magari potessi crederci. Mi piacerebbe avere di nuovo vicini mio fratello Jan, che è morto a solo ventun anni, mio padre, mia madre e l’astronomo Guillermo Haro, padre dei miei figli.

La sua biografia non è meno interessante di quella dei suoi grandi personaggi femminili, reali come Tina Modotti e Leonora Carrington o inventati come Amaya Chacel e Fausta Rosales. Non ha pensato di scrivere la sua autobiografia?
Uno scrittore mette molto di se stesso in ogni romanzo, in ogni momento della sua scrittura e credo di averlo fatto in Hasta no verte Jesús mío, in Tinísima, in Leonora, in una novella intitolata «Paseo de la Reforma».

Pensa che una letteratura femminile esista o debba esistere?
Penso che ci sono scrittori buoni o cattivi, solamente.

Il suo più grande rimpianto?
Non aver avuto più figli, ma Guillermo ormai si sentiva vecchio e anche per me non sarebbe stato facile.

Che pensa della guerra ai narcos sferrata dall’ex-presidente Calderón? E in generale del proibizionismo?
Le conseguenze della guerra sono state terribili, devastanti, e lo si vede adesso con quello che succede nello stato di Michoacán, con la gente che si fa giustizia per propria mano e i gruppi di autodifesa che agiscono senza nessuna forma di controllo e con tutti i tipi di armi.

Che droghe ha preso, che effetti ne ha avuto e quali proverebbe?
Ho fumato solo una sigaretta di marihuana che mi ha dato una mia amica, però siccome non sentivo niente mi ha detto di ridargliela. A volte ho pensato di andare al pellegrinaggio che fanno gli Huicholes attraverso il deserto per provare il peyote con loro, ma questo desiderio non si è mai realizzato.

Lei ha descritto stupendamente il Messico del passato, quello del xx secolo, e ha criticato con efficacia il Messico attuale. Verso dove sta andando il paese?
È difficile sapere dove va il paese, oggi la gente vive nello sconcerto e fra i giovani c’è molto malessere perché sentono che il futuro è incerto e non resta loro che la protesta, anche a rischio di essere repressi duramente. È successo con il movimento iniziato nella Iberoamericana, una università privata di Città del Messico, che si è autodenominato movimento Yo soy 132 (io sono il 132), perché 131 giovani mostrarono i loro libretti universitari alla televisione quando li accusarono di non essere studenti. Purtroppo, questo movimento sembra essere in riflusso, come pure quello di solidarietà con gli zapatisti. C’era una speranza che sembra essersi sfumata.

Quali requisiti deve avere un romanzo per considerarsi riuscito?
L’autenticità.

Di tutte le interviste che ha fatto, molte delle quali sono raccolte nei libri Todo México e Palabras cruzadas, quale l’ha emozionata di più?
Mi ha emozionato moltissimo conquistare l’amicizia di Luis Buñuel, per cui ho provato un grande amore platonico, perché andavamo insieme al Palacio Negro di Lecumberri, la famigerata prigione di Città del Messico, a visitare il nostro comune amico Álvaro Mutis, il poeta compagno di battaglie del nostro indispensabile Gabriel García Márquez. Il carcere, con i suoi detenuti recidivi chiamati “conigli”, ci mise in contatto con una realtà terrificante: quella della vita e la morte dietro le sbarre.

Non le domando quale considera il suo libro più riuscito perché so già che risponderebbe “il prossimo”. Però, di quelli che ha già dato alle stampe, quale sente di più come un figlio?
Hasta no verte Jesús mío, perché ho amato molto la sua protagonista Jesusa Palancares, che nella vita reale si chiamava Josefina Bórquez, e mi manca tantissimo, non come mia madre ma sento un’enorme nostalgia. Penso a lei ogni volta che ho un problema, cosa che succede spesso, e mi domando che farebbe lei nella mia situazione.

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