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Per un barocco americano: Lezama Lima e l’avventura dell’immaginario / 3

Francesco Varanini Autori, José Lezama Lima, Ritratti, SUR

Pubblichiamo oggi la terza parte del lungo saggio di Francesco Varanini su José Lezama Lima e il “barocco americano”. Le due parti precedenti si possono leggere qui e qui.

Ondate in successione / 3
di Francesco Varanini

Altrettanto significativo – ora Cemí si è pienamente guadagnato l’attenzione del gruppo di studenti, e la nostra: stiamo leggendo Paradiso, il gran romanzo di Lezama, che una summa teologica e un trattato e un romanzo di formazione e di avventura della ragione, un romanzo che non poteva aver luogo che all’Avana, nel cuore del paesaggio americano, e che di lì guarda all’Europa con un sguardo che illumina altrimenti. Altrettanto significativo, ci dice Cemí-Lezama, anzi, più significativo, per noi americani, il probabile incontro di Góngora e dell’Inca Garcilaso.

La Flórida è pubblicata a Lisbona nel 1605, Góngora doveva conoscerla. Leggiamo qualche suo verso di tre anni dopo: «De la florida falda/ que hoy de perlas bordó la alba luciente,/ tejidos en guirnalda/ traslado estos jazmines a tu frente,/ que piden, con ser flores» (Góngora, Canciones, XI, datata 1608) non c’è forse in questo ritratto femminile qualcosa dello sguardo americano dell’Inca? Non c’è qualcosa dell’Inca nella «frecuente alusión a las joyas incaicas», una costante dei versi del poeta?

Sembra che la conoscenza tra i due risalga al 1585. Si sa che Góngora nel 1609 tornò a risiedere a Córdoba, dove dal 1591 viveva El Inca. Secondo Menéndez Pelayo – che contrappone il Príncipe de la Luz della prima produzione al Príncipe de las Tinieblas che emerge ora – sono gli anni in cui la poesia di Don Luis, a partire dalla Toma de Larache (composta tra il 1610 e il 1611) cambia radicalmente. Dámaso Alonso coglie invece una continuità: complessità e oscurità, allusioni mitologiche, cultismos, ci fa notare, erano già presenti nelle prime opere.

Cemí-Lezama sta più dalla parte di Alonso che di Menéndez Pelayo, ma finisce per dar ragione a quest’ultimo almeno su un punto: un cambiamento c’è stato. E avviene, non può essere un caso, «en el tiempo en que ambos coincidieron en Córdoba». «I racconti del Inca», continua Cemí infervorato, «devono averlo fatto sussultare». «Los incas e la imaginación de Góngora: he ahí un delicioso tema».

La «piedra despidiendo imágenes», la pietra cornucopia. Ecco l’immagine esemplare che chiama in gioco l’America, luogo di per sé barocco, luogo spiegato dal barocco, luogo dove il barocco vive la sua vera vita. La poesia è conoscenza allo stato nascente; l’America è il luogo del nuovo nascente.

La Toma de Larache inizia con un verso folgorante: «En rocas de cristal serpiente breve». Un verso che ci appare fulgido compendio dello sguardo barocco.

Rocas de cristal: immaginiamo la roccia scura, incrostata di diamanti e di rubini e di smeraldi. E l’eliotropo, agata, «de color verde oscuro con manchas rojizas», e il carbonchio, secondo l’Ariosto «lucido e vermiglio» (Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 53), così frequenti nei versi di Góngora.

Lo sguardo americano del Inca Garcilaso ha lasciato traccia nello sguardo di Góngora, l’ha educato: nelle pietre preziose di  Góngora ritroviamo la «piedra despidiendo imagenes», «las joyas incaicas». Lo sguardo, il lumen, secondo la Scolastica, si incontra con la lux che emana creato.

Góngora, ci fa notare Lezama, è innazitutto poeta del rayo, del raggio di luce, dello sguardo. Raggio che occhieggia tra le fronde oscure dei suoi versi, sguardo che si posa sul luogo immaginario, che non è più solo un luogo mitologico, è ormai – anche, inevitabilmente – il paesaggio americano, retaggio della Florida.

Nei versi di Góngora cogliamo l’aire más transparente d’America, quella trasparenza che sorprende e meraviglia Colombo e Humboldt e ogni viaggiatore, trasparenza che sta sia nello sguardo dell’osservatore, posato per la prima volta su un mondo nuovo, ma anche, trasparenza della luce che emana dal mondo nuovo, l’America. Trasparenza, come ci ricorda Alfonso Reyes, legata ab origine all’immagine dell’America.

«En rocas de cristal serpiente breve». Eccoci dunque dentro questa trasparenza: appare così ai nostri occhi la serpe ferma sulla roccia cristallina; la serpe che si sposta con rapidi, fulminei movimenti. Simbolica, allegorica immagine dell’America sognata da conquistadores e viaggiatori, e allo stesso tempo dell’America precolombiana.

Un verso che Lezama ben conosceva, e che cita in quella che è la sua lirica forse più perfettamente barocca:  «/(…) los animales más finos:/ antílopes, serpientes de pasos breves, de pasos evaporado/». Un verso che mostra il cammino che da Góngora porta al simbolismo e all’ermetismo del Ventesimo Secolo. Un verso che, ci ricorda Lezama, Valéry amava citare, e usava come epigrafe.

«En rocas de cristal serpiente breve». È una festa per lo sguardo, quasi troppo per i nostri sensi intorpiditi dalla quotidianità, frenati dalla paura delle nostre stesse emozioni. È un paesaggio fin troppo cristallino, colorato e vivo – e per questo, turbati, temiamo di non poterlo abitare.

Già troppo per una letteratura fatta di parole sgualcite dall’uso.

Troppo. Perciò, per timore e e per comodo, ci rifugiamo nella lectio facilior: abbassamento,  normalizzazione, immagine già catacresizzata, stereotipo. Sì, perché  – stiamo leggendo la Sierpe de Don Luis de Góngora – Lezama ci ricorda  che «en rocas de cristal serpiente breve», nonostante sia preso per buono da alcuni editori, non è il verso pensato dal poeta. Góngora pensava e scriveva: «En roscas de cristal serpiente breve». Non rocas, «rocce», ma roscas, «spire».

Qui sta il nucleo della critica che Lezama rivolge a Góngora e ai suoi lettori. Góngora non è capace di accettare la potenza del proprio rayo. Góngora, e con lui i suoi lettori, temono le immagini troppo luminose. Di fronte alla lux americana distolgono lo sguardo.

Quella visione, quel’«era immaginaria» (la definizione è di Lezama) che nasce dall’incontro tra Góngora e l’Inca Garcilaso, è così negata, rimossa. Così come fnisce per essere in basso l’amichevole relazione tra Góngora e il temerario, desaforado Villamediana. Temendo forse la censura, subendo pressioni ambientali, temendo forse della propria salute mentale, non sapendo magari accettare il giudizio sociale che Villamediana accettava con irridente noncuranza, non sapendo cogliere la radicale diversità dell’America – l’idea stessa che possa esistere un altro mondo –, temendo e subendo tutto questo, Góngora si rifugia nella mitologia greocolatina.

Dunque possiamo dire, con Lezama, che è lo stesso Góngora, in fondo, a metter in mano la penna  all’editore che crea la variante accolta da Valéry. Una sindrome di Valéry, e di Góngora, potremmo dire: l’abisso di senso dà vertigini; il lettore, e forse lo stesso poeta, si difendono, si arrendono in fondo al timore delle immagini eccessive.

Dà le vertigini la diversità americana, tanto che possiamo intendere una gran parte della letteratura ispanoamericana come tentativo di recuperare radici europee, di accreditarsi come europea, dentro il canone occidentale accreditarsi. Così Borges e così Carpentier e così il García Márquez maturo e baciato dal successo – ma gli esempi sarebbero innumerevoli. Letteratura europea rivissuta, purificata ed estrema, agli antipodi.

Troppo rari, a ben vedere, i poeti e i letterati che accettano di essere radicalmente americani. Qui Góngora e l’Inca Garcilaso si oppongono l’uno all’altro, mentre l’Inca e Lezama sono vicinissimi. In un’era immaginaria, li vediamo conversare di manaties e serpientes, alberi e frutti, naturaleza americana.

Del resto – è pronto a ricordarci Lezama –  l’abbassamento, il timore, la sindrome di Góngora o di Valéry non riguarda solo la letteratura de habla hispánica, ma anzi, incombe sulla poesia e sul mondo. Cosl desiderio di semplificazione, di subordinazione a una rassicurante chiave di interpretazione – infine: il desiderio di controllo – agisce non solo nel cercare la lezione che nega la complessità ed esclude dal nostro sguardo le pericolose spire, vedendo immobili rocas in luogo di  mutevoli roscas. Il desiderio di semplificazione e di controllo agisce anche lì dove il lettore accetta di avere sotto gli occhi il verso che dice  «en roscas de cristal serpiente breve». Qui il rifiuto del soprassalto barocco, della pluralità inestricabile di senso in una stessa frase, è fondato nel legare il verso a quello successivo. «En roscas de cristal serpiente breve/ Por la arena desnuda del Luceo yerra».

Che problema c’è: il Luco è un fiume, il fiume, naturalmente, serpeggia. Anzi, ben venga questa lettura: le banali anse del fiume ci permettono di tener lontano da noi la perturbante immagine della serpe ferma sulla roccia, possiamo evitare il soprassalto provocato dall’irrompere delle immagini americane, possiamo restar distanti dalla «piedra despidiendo imagines», dalle «joyas incaicas». Così, spiega i due versi – non attribuendo loro particolar valore – anche El Lunarejo, Juan de Espinosa Medrano, meticcio, Cura Parroco de la catedral de Cuzco, appassionato difensore americano di Góngora (morto trentacinque anni prima, e già oggetto delle feroci critiche). «Vulgar metáfora de los poetas llamar los ríos sierpes de plata, culebras de diamante, etcétera». (Juan de Espinosa Medrano, Apologético en favor de don Luis de Góngora, Juan de Quevedo y Zárate, Lima,1662,    X, § 92.)

Contro questo abbassamento del senso, contro questo barocco che si appoggia su letture del mondo già date, combatte con imperituro coraggio Lezama, poeta essenzialmente, non formalmente barocco.

© Francesco Varanini. Tutti i diritti riservati.

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