Nella zona proibita

redazione Recensioni, SUR

Pubblichiamo oggi una recensione a Nella zona proibita, dello scrittore messicano Eduardo Ramos-Izquierdo, già comparsa su «Alias», ringraziando l’autore Stefano Gallerani. Qui si può leggere un’altra recensione sul blog Flanerí.

 

di Stefano Gallerani

 

Secondo numero della neonata collana “Gli eccentrici”, per i tipi delle Edizioni Arcoiris di Salerno, Nella zona proibita (a cura e con una nota di Stefano Tedeschi, traduzione di Giulia Pinchetti) presenta per la prima volta ai lettori italiani lo scrittore messicano Eduardo Ramos-Izquierdo, facendo opportunamente precedere il testo di questo insolito romanzo breve da Come un arcipelago, sorta di statuto poetico – a firma dello stesso autore – che al punto 6 recita: “L’artificio è la chiave e la cifra della scrittura letteraria”. Partendo da questo presupposto, En la zona prohibida non tarda a mostrare la sua fedeltà e la sua coerenza estreme alle intenzioni che vi sottendono, svolgendosi, tutta la narrazione, tra l’intreccio poliziesco-metafisico di stampo dürrenmattiano e le atmosfere caliginose del più classico noir francese: ovvero, giocando con il “genere” e doppiando la puntata col ricorso ad espedienti canonici quali il ritrovamento del manoscritto perduto, l’ibridazione e la mise en abyme.

Al centro della vicenda, Lino, prototipo dell’investigatore disperato e maudit (capace, tuttavia, di imprevisti ed imprevedibili scarti dal personaggio), viene incaricato di trovare una persona che ha diverse cose in comune con il suo cliente (“stesso fisico, stessa data di nascita, stesse iniziali di nome e cognome, stessa professione, stesso modo di vestire, stessi gusti di cucina”); intorno a lui, una serie di figure più o meno minori tratteggiate con mano sicura e per lampi: Molina, ad esempio, che ingaggia Luis innescando tutta la storia, o Agathe e Tiphanie, presenze femminili tanto concrete quanto fantasmatiche. Pure, quello che rende interessante – eccentrica, appunto – la scrittura di Ramos-Izquierdo, è il vero tema che questi adotta: quel doppio che tanta parte ha nella letteratura universale e che lo scrittore messicano (ma francese d’adozione) declina sapientemente sia come pretesto per mettere in discussione la supposta identità del soggetto che come fondamento di una costruzione che non si compiace dell’elemento ludico, ma lo spinge verso esiti non convenzionali.

Di più, Ramos-Izquierdo (già autore di raccolte di poesie e di racconti) nemmeno si limita a considerare il doppio come semplice sinonimo del plurimo perché, simmetricamente e specularmente, lo moltiplica in modo tale che ognuno dei suoi personaggi abbia un sosia che gli somigli, e che ad ogni modo non è esattamente la sua riproduzione fedele; i profili finiscono così per scontornarsi e le sembianze a confondersi entro quella zona proibita che è la vera scena del romanzo: non un mondo altro, un mondo parallelo o fantasioso, ma un’estensione sovra-territoriale (abitata da una coscienza inquieta) che – così prescrive Ramos-Izquierdo – deve percorrersi tutta d’un fiato, leggendo il romanzo in volata e lasciandosi trascinare nel suo caleidoscopio di echi e coincidenze come s’ascolta l’esecuzione di una sonata di cui rapiscono, più che ogni altra cosa, le sfumature e le variazioni.

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