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Mi ricordo | Martín Kohan

Martín Kohan Racconti, Scrittura, SUR

Sul modello di Joe Brainard, poi seguito da Perec e molti altri, il secondo contributo tratto dalla rivista Traviesa, che ringraziamo: i ricordi dell’autore messicano Martín Kohan.

di Martín Kohan
traduzione di Massimiliano Bonatto

Mi ricordo dell’angolazione e dell’altezza esatta degli aerei che, durante gli anni della mia infanzia, passavano davanti a casa mia. Scendevano verso l’aeroporto di Buenos Aires e, abbassandosi, sembrava che fluttuassero, che volassero senza sforzo. Di notte non erano aerei interi, erano soltanto luci. Talvolta, non so perché, non facevano rumore.
Ho tentato un’infinità di volte di ritrovare la stessa angolazione e la stessa altezza in altri luoghi in cui passavano gli aerei. Non ci sono mai riuscito. Ci ho provato perfino guardando dalla finestra della casa in cui ho trascorso l’infanzia. Inspiegabilmente, non ci sono riuscito nemmeno così.

Mi ricordo del giorno in cui morì Perón. Avevo sette anni. I miei genitori mi portarono a vedere il corteo funebre. Non erano peronisti, non lo erano stati mai. Ma il corteo funebre passava a qualche isolato da casa mia. Fu questo a convincerli: la vicinanza dell’evento più che l’evento in sé. Camminammo per pochi isolati e arrivammo al viale in cui sarebbero passati l’auto nera, il presidente morto, la storia nazionale. Non so se sia un ricordo o soltanto una deduzione ma, visto che era già cominciato l’inverno, faceva molto freddo quel giorno.
Era la prima volta in vita mia che vedevo piangere delle persone adulte. Lo facevano senza nascondere la faccia.

Mi ricordo dei colori di alcune linee di autobus a Buenos Aires: rosso e nero (linea 130), blu e rosso (linea 38), celeste e giallo (linea 41), arancione e beige (linea 36).
Queste linee di autobus esistono ancora oggi, e fanno sempre lo stesso percorso. Eppure i loro colori sono totalmente diversi.

Martín KohanMi ricordo dell’angolo oscuro che si formava in un’ansa del fiume. Da bambino trascorrevamo le vacanze in un paesino della provincia di Córdoba. Il fiume dove ci rifugiavamo per il caldo e per abitudine era così semplice da risultare modesto: né ampio né impetuoso, quasi immobile anche se scorreva, sembrava sempre uguale a sé stesso, come se il suo vero scopo fosse smentire Eraclito e la sua famosa frase.
Era limpido, seppure non trasparente, ma in quello strano meandro si scuriva fino a diventare nero. Dicevano che era un mulinello, anche se nell’acqua non si vedeva nessun tipo di vortice. Dicevano che era un mulinello e raccontavano con voce preoccupata che soltanto il giorno prima un ragazzo abbastanza giovane si era tuffato proprio lì, senza sapere che rischio stava per correre.
L’acqua lo inghiottì: era affogato.
Il giorno dopo noi giocavamo nel fiume sotto il sole. Con l’acqua che ci arrivava alla vita, senza alcun timore. Ma a pochi metri dal mulinello, al quale non ci saremmo avvicinati per niente al mondo, guardavamo di sbieco e con ansia quella parte perversa del fiume. Innocente e truculento come un gatto che dormicchiava su un cuscino, dopo aver divorato un passerotto.
Mi ricordo che tra di noi ci chiedevamo se il morto lo avevano tirato fuori, o se era ancora laggiù, nel fondo, nel buio, nella morte.

Mi ricordo di una tappa della mia vita, verso gli otto o i nove anni, in cui non riuscivo a smettere di sbattere compulsivamente le palpebre, stringendo forte gli occhi.
Mi ricordo che mia nonna, la quale a quanto pare non credeva nelle azioni involontarie, mi chiese, più e più volte, per quale motivo lo facessi.
Mi ricordo che mio padre, il quale a quanto pare preferiva fare i conti con il mio corpo invece che con me, mi dava delle manate selvagge sulle spalle e sulla nuca: era il suo modo di raddrizzarmi.

Mi ricordo della guancia di Mariquel. La guancia di Mariquel più che Mariquel. Si chiamava María Raquel; ma nessuno, nemmeno i suoi genitori quando la sgridavano, pronunciavano il suo nome completo.
Un pomeriggio d’estate a Córdoba, mentre i grandi dormivano, decidemmo di darci un bacio. Avevamo nove anni, dieci al massimo. Appoggiammo le nostre guance una sull’altra, e prolungammo il contatto per un istante. Lo chiamammo bacio.
Mi ricordo che per me fu proprio quello: il mio primo bacio, anche se in realtà, a essere pignoli, non ci fu nessun bacio.

Mi ricordo della formazione del Boca Junior del 1976; la prima squadra che vidi vincere il campionato. E posso dimostrarlo anche ora, recitando con il solo ausilio della memoria: Gatti, Pernía, Sa, Mouzo, Tarantini; Benítez, Suñé, Zanabria; Mastrángelo, Veglio, Felman.

Mi ricordo, come se fosse oggi, della prima volta che sono caduto dalla bicicletta. La lunga borsa appesa al manubrio dondolò fino a incastrarsi tra i raggi della ruota davanti. La bicicletta si fermò di colpo e io volai via, letteralmente. La bici ci mise qualche secondo più di me a cadere. Per questo riuscii a vederla mentre ero a terra: sola, libera, ridicola. Sembrava delusa di me. Poi cadde, o si lasciò cadere.
Nella borsa che aveva provocato l’incidente c’erano scatole di cioccolatini e pacchetti di sigarette: donazioni per i soldati che combattevano alle Malvine e che, quasi certamente, non raggiunsero mai la loro destinazione.

Mi ricordo di quando cambiarono il senso di marcia della via di casa mia: da doppio passò a essere a senso unico. Però ci volle un po’ di tempo prima che perdessimo l’abitudine di guardare da tutte e due le parti prima di attraversare. Io, in particolare, ci misi più tempo degli altri, perché era da poco che avevo avuto il permesso dai miei genitori di scendere dal marciapiede alla carreggiata.

Mi ricordo del rumore che faceva il respiro da fumatore incallito di mio padre: regnava in tutta la casa per tutta la notte. Parlava del suo malessere, della fatica che faceva a respirare. Lo sforzo di quell’aria ci faceva pensare al tempo stesso a due cose ben diverse: una, che stava per morire; l’altra, che era ancora vivo.

Mi ricordo con precisione del sapore dei biscotti che da bambino divoravo con foga. Erano coperti da uno strato di zucchero che scrostavo con i denti prima di mangiare il resto. Li producono ancora, tra l’altro, ma non sono più come prima.
Mi succede al contrario di Proust: sarei capace di evocare tutta la mia infanzia, se potessi recuperare il sapore di quei biscotti.

Mi ricordo della prima volta che ho visto una donna nuda. Era al cinema, anzi, a dire il vero al drive-in. In macchina, assieme a me, c’erano mio padre, mia madre e la mia sorellina.

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