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Non ho abilità se non per la cultura: intervista ad Antonio Di Benedetto / 2

redazione Antonio Di Benedetto, Autori, Interviste, SUR

Zama di Antonio Di Benedetto, romanzo da molti considerato un’opera imprescindibile della letteratura argentina, è in libreria. Presentiamo oggi la seconda parte di una bella intervista di Jorge Halperín all’autore, uscita su Clarín nel 1985. Qui potete leggere la prima parte.

Intervista di Jorge Halperín / 2
traduzione di Cecilia Raneri

JH: Cosa sente di aver perso dopo la sua prigionia?

ADB: Prima di tutto, ho perso momentaneamente la fede, anche se in seguito lʼho recuperata. Avevo perso la fede che si può riporre in una forza soprannaturale, in un Dio che governa per il Bene e non per il Male. È che avevo visto una crudeltà e una cattiveria infinite. E ho perso, quindi, la fede nei miei simili. Non mi fidavo più di nessuno. Ho perso però anche la fede in me stesso, perché mi sentivo in colpa, non per le colpe che mi attribuivano i militari, che, se erano colpe, avrebbero potuto essere sanzionate attraverso una legge sulla stampa e non con la situazione disumana alla quale mi avevano sottomesso. No, io ero ben consapevole di altre colpe di condotta di fronte agli altri e per questo ho perso totalmente anche la fiducia in me stesso. Eppure sono stato capace di uscirne.

JH:  È riuscito a chiudere quellʼesperienza dentro di sé?

ADB: Ho pensato che quelle aberrazioni crudeli e ignobili non potevano essere permanenti né risiedere nella condotta e nei sentimenti di tutti i militari. E poiché erano indistinguibili – lʼuniforme li mimetizza in una moltitudine – dovevo applicare unʼindulgenza molto ampia con un sistema molto pratico: la legge dellʼoblio. Ho applicato lʼoblio a molte azioni che ogni volta che ricordo mi fanno soffrire atrocemente e il giorno successivo mi alzo con dolori in tutto il corpo, persino alle gambe. Non è facile applicare questa regola perché le ferite sono molto profonde. Però fino a ora non ho puntato il dito per accusare nessuno, sebbene conservi diversi nomi in fondo alla memoria (piange).

JH: Questa intensa malinconia che lei trasmette sempre è presente perché sente di non aver trovato un nuovo progetto di vita?

ABD: Non sono rimasto senza progetti. Persisto nel tentativo di fare lo scrittore, anche se questo è il più nobile e il più generico. Desidero anche riparare il danno che con la mia detenzione ho provocato alla mia famiglia, che si è disgregata, nonostante io non sia mai stato accusato di qualcosa di concreto.

JH: Perché ha deciso di isolarsi volontariamente nel bosco del New Hampshire? Che attrattive vedeva in un’esperienza simile?

ADB: Innanzitutto, non avere nessuna preoccupazione economica. Avevo borsa di studio di una fondazione e potevo fare ciò che volevo per vari mesi in mezzo al bosco. Tutte le mie necessità materiali erano soddisfatte: a mezzogiorno, una cappuccetto rosso mi portava un cestino con il pranzo. Io scrivevo tutto il giorno e al tramonto, con il calar del sole, cenavamo seduti a un tavolo sul quale il cibo più comune era il tacchino arrosto. Perché in New Hampshire non cʼè bestiame bovino. È una zona di conifere che si prolunga fino al Canada, ma ci sono delle piante dalle grandi foglie di uno stupendo rosso cremisi in autunno. Ossia il fuoco, il vento e la luce.

JH: Viveva solo la maggior parte del tempo?

ADB: Vivevo completamente isolato scrivendo la parte principale di Sombras, nada más. Sognavo molto e prendevo subito appunti sul comodino.

JH: La prigione non le ha fatto venire paura della solitudine?

ADB: No. Se uno riesce a riempire la solitudine, non la teme. Io scrivevo e pensavo. Il mio metodo di lavoro consiste nel pensare un paragrafo, scomporlo in frasi e poi, ripetendole a voce alta per sentire la cadenza che vi ho imposto, correggerle perché abbiano una sonorità adeguata, pensando a come risulteranno per il lettore.

JH: Come un musicista?

ADB: A volte cerco di produrre una lunga melodia. Come la melodia centrale della composizione armonica. Altre volte no, però mi impegno sempre perché le frasi e le orazioni abbiano una costruzione armonica e, se possibile, ritmo.

JH: Ultimamente ha dichiarato di avere l’impressione che i suoi racconti abbiano perso in qualità. Cosʼè successo?

ADB: È che ci sono stati dei periodi, che non riesco a rivivere, nei quali potevo evadere dalla forma giornalistica per pensare in forma puramente letteraria. Mi è diventato difficile, non so se per lʼetà o per la vita amara che faccio, però in genere mi esce la forma giornalistica.

JH: Cosʼè che è cambiato in realtà? La sua prosa o lo sguardo che dà alla sua prosa?

ADB: Francamente non ci ho pensato.

JH: Ha fatto il giornalista per gran parte della sua vita. Cʼè un abisso tra giornalismo e letteratura?

ADB: No, al contrario. Lʼesercizio del giornalismo dona unʼagilità espressiva e una capacità di sintesi molto utile nel distinguere tra gli aspetti principali e quelli secondari. È una cosa molto preziosa per uno scrittore. Ma ancora più importante si è rivelato per me ciò che diceva uno scrittore, che credo fosse John Steinbeck, riguardo al suo apprendistato nel giornalismo e la fluidità che gli aveva dato nel descrivere la vita e i personaggi nella letteratura. Alla consegna di un premio importante raccontò anche che aveva fatto il postino per molti anni finché non lo avevano cacciato perché gli risultava irresistibile violare la corrispondenza cercando storie che accendessero la sua immaginazione di scrittore.

JH: Si potrebbe dire che il giornalista è una diversa categoria di scrittore?

ADB: No, è diverso. Essenzialmente, lo scrittore è un giornalista che non lavora su quello che è successo oggi e che deve essere consegnato stanotte perché sia pubblicato domani. Lo scrittore è un cronista, a momenti redattore, a momenti intervistatore. È come dire che vari aspetti della professione giornalistica sono fusi nello scrittore.

JH: Qualcuno ha detto che è molto difficile che chi scrive regolarmente per mestiere sia poi in grado di fare letteratura.

ADB: È difficile, però io ho avuto esperienze sia a favore che contro questa tesi. Per esempio il mio racconto Cavallo nel salnitro, che ha avuto esiti tanto positivi (premi internazionali, ndr) è il prodotto di unʼepoca nella quale lavoravo giorno e notte. E lʼho scritto in quattro ore del primo mattino.

ADB: Come si è ispirato per quel racconto nel quale quasi non ci sono esseri umani?

JH: È stata unʼosservazione che ho fatto nellʼora della siesta, che, come lei sa, in tutta la zona di Cuyo, è il momento in cui la città si svuota. In fondo a calle Catamarca ho visto il carro parcheggiato di un panettiere. Mi sono avvicinato e ho osservato il cavallo legato, che sopportava tutto quel sole senza mangiare, mentre il carro traboccava di pagnotte. Mi è sembrato assurdo che lʼanimale fosse legato al suo alimento – anche se, chiaro, lui avrebbe preferito il pascolo – senza poter mangiare. Da lì lʼho immaginato nel racconto che trasportava pacchetti e vagava nel deserto disperato di fame senza sapere che portava con sé il cibo.

JH: Perché ha scritto racconti senza esseri umani?

ADB: Perché mi ha coinvolto una sfida di Sábato. Molti anni fa lui si aggirava per Mendoza e io e un gruppo di amici gli stavamo intorno per ascoltare le sue lezioni su questo o quel tema letterario. Lo abbiamo anche invitato a nuotare in un canale dove abbiamo imparato alcune cose sulla natura. È passato un uomo con una grande sacca e ne ha estratto alcune rane. Le ha stimolate e gli animaletti hanno cominciato a fare una danza sessuale che avrebbe entusiasmato lʼautore de Il bacio della donna ragno (Manuel Puig). Prima che Sábato concludesse il suo soggiorno nella provincia, ha tenuto una conferenza su Madame Bovary, di Flaubert, e in un passaggio ha detto che in qualsiasi romanzo non può mancare lʼessere umano con i suoi sentimenti e i suoi comportamenti.

JH: E lei invece ha pensato a un romanzo con oggetti?

ADB: Io sono rimasto in silenzio per un istante ma non ho trovato il coraggio di replicare. Nella mente mi è apparsa una contraddizione. Ho visto come un cielo aperto – o chiuso – che scaricava grandine in abbondanza. Alcuni dei chicchi di ghiaccio rompevano una finestra, rotolavano e nel loro percorso colpivano un bicchiere dʼacqua. Il bicchiere cadeva su una lettera scritta e lʼacqua sfaldava le parole. Lʼazione si completa senza che lʼessere umano vi partecipi. È accaduto per via del cielo e dellʼacqua, gli elementi della natura.

JH: E perché è comunque letteratura?

ADB: Perché è scritto con un determinato stile. Dalla composizione alla disposizione dei materiali fino al concatenamento delle frasi. E, inoltre, la bellezza, lʼintensità, la drammaticità o lʼangoscia che sono state messe in ogni pensiero. Questo è letteratura.

JH: E cosa ne pensava Sábato?

ADB: Poco dopo ho scritto il racconto El abandono y la pasividad, ma dato che ero partito per Buenos Aires glielʼho inviato per posta e gli ho scritto: «Guardi, Sábato, è possibile che un romanzo senza esseri umani non si possa scrivere, perché richiede più azione, la presenza di più episodi e il divampare di quegli episodi, ma un racconto sì che si può». Sábato, con la sua laconicità, che è di una maestria straordinaria, mi ha risposto: «Lʼeccezione conferma la regola». Come dire che io ero riuscito a scrivere un racconto, ma non avevo ragione.

JH: Ha affermato che uno dei suoi temi ricorrenti è provocare il nulla. A cosa si riferisce?

ADB: È da intendere in due modi: da un lato, è la ricerca dellʼausilio della morte, attraverso il suicidio. Consegnarsi al nulla per la convinzione – e in questo mi allontano dalla visione cristiana – che dopo la morte non cʼè niente. In secondo luogo, che il nulla si può costruire nei riguardi del prossimo se si sente che lui pensa di noi che siamo il nulla. Non in senso morale, ma che non valiamo, che non esistiamo, che siamo “cancellati”.  È meglio vivere “cancellato” quando chi esiste viene messo in carcere, picchiato e insultato. Ma in un senso realista e moralista, il nulla è anche sminuirsi, sentirsi in soggezione e questo può implicare avere paura. Perciò non lo accetto. Cerco di essere coraggioso nella misura in cui la mia vigliaccheria me lo permette.

JH: Sono otto mesi che si è ritrasferito a Buenos Aires. Come sta andando?

ADB: Sento una grande frustrazione. Lentamente, sto tornando allʼesilio perché le cose non sono andate bene. Non posso continuare a spalleggiare una situazione assurda. Sono stato chiamato per venire qui e adesso mi hanno mollato senza rinnovarmi il contratto con lʼarea della cultura ufficiale.

JH: Le hanno dato spiegazioni?

ADB: Mi hanno parlato di “austerità”. Salvo che per il mio modesto lavoro nella Casa de la Provincia di Mendoza, mi risulta molto difficile sopravvivere, E non so cosa potrei fare perché non ho abilità per nientʼaltro che non sia la cultura.

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