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La pillola del giorno dopo

John Jeremiah Sullivan BIGSUR, Società

Seymour GlassQuesto articolo è apparso sul blog della Paris Review e viene qui riprodotto per gentile concessione della rivista.

di John Jeremiah Sullivan
traduzione di Laura Bortoluzzi

 

Vivo nella parte sudorientale del North Carolina, in una contea che ha votato per Trump. Sono uno di quelli che non avrebbe dovuto stupirsene, ma che invece si è stupito. La mattina dopo le elezioni dovevo partire e non ne avevo voglia. La notte prima, a letto, mia moglie aveva pianto. Avevamo la tv accesa ed è scoppiata in lacrime quando è diventato chiaro cosa stava accadendo. L’indomani mattina, quando sono partito, mia figlia undicenne – che aveva vissuto la candidatura di Hillary come una delle esperienze più emozionanti e arricchenti della sua vita – piangeva a dirotto. Ho notato che questa sorta di pianto collettivo è già diventato un meme («Foto di gente che piange per l’elezione di Trump!»), e che questo meme è poi passato di moda («Basta piangere, liberali!»), e così facendo, nell’arco di ventiquattro ore, abbiamo in un certo senso superato il fatto che buona parte del Paese piangeva apertamente per il risultato delle elezioni. Perché, capirete bene, quella reazione doveva pur significare qualcosa.

L’autista del taxi che è venuto a prendermi era una donna di colore. L’ho vista in faccia e ho ringraziato Dio. Nella mente mi sono scattate una serie di supposizioni. Mi sono reso colpevole di una specie di cripto-classificazione al contrario. Pace, è stato un riflesso umano. Ero sicuro che se l’autista fosse stato un elettore di Trump, e avesse cominciato a parlare delle elezioni, mi sarei slacciato la cintura, avrei aperto la portiera e mi sarei lasciato cadere dall’auto in corsa. Invece mi ha chiesto: «Cosa ne pensa delle elezioni?» Sentita la mia risposta, si è detta sollevata: «Ah, ok. Sa, non posso sapere da che parte sta la gente». Mi ha raccontato che poche ore prima, uscendo di casa per iniziare il turno, il marito le aveva chiesto di non svegliare il figlio tredicenne. «Lascialo dormire fino a tardi oggi». Erano preoccupati per come l’avrebbe presa. La notte prima era spaventato. Aveva chiesto: «E adesso, cosa ne sarà di noi?» Una domanda con cui si riferiva, immagino, alla sua famiglia, o alla gente di colore, ma che vale, be’, anche per noi. Per tutti gli americani.

Ho una certa età ormai, e sono stato spettatore attento di otto o nove elezioni presidenziali. Per negare che questa tornata elettorale è stata radicalmente diversa, bisognerebbe negare l’evidenza delle proprie sensazioni. All’aeroporto l’atmosfera era strana e inquietante. È un aeroporto minuscolo. In sala d’aspetto ci saranno state forse una quarantina di persone. Ne conoscevo dieci di vista e due o tre di persona. Alcuni erano pallidi e stravolti, come me, immagino. I più sembravano sbattersene altamente delle elezioni. Un tizio parlava al cellulare a voce alta – e comunque, cari concittadini, già che ci sono, vorrei chiedervi di smetterla, di smetterla di parlare a voce alta, cioè di far sentire a tutti i fatti vostri quando siete al telefono in un luogo pubblico, e soprattutto vi prego di smetterla di guardare gli altri mentre lo fate, è così urtante, e denota anche una tendenza alla sociopatia che non saprei definire con precisione ma di cui sono certo, perciò, fatemi questo favore – insomma, questo tizio diceva a un amico: «Be’, col senno di poi, come candidata aveva tante pecche, più di quelle che sapevamo, troppe», eccetera. Avrei voluto dirgli che queste pecche, secondo me, erano più nostre che sue e che c’entravano sostanzialmente col fatto che lei avesse una vagina, ma non volevo interrompere la sua conversazione.

La cosa più interessante, al gate, era guardare le persone che si guardavano. Era chiaro, a giudicare dalla nostra espressione e dalle nostre occhiate furtive, che molti di noi pensavano: «Sei uno di loro? Tu ci hai fatto questo?» E gli elettori di Trump, o quelli che io ho classificato come tali, forse pensavano: «Mi guardi così perché pensi che ho votato per lui? Fottiti! Questa è l’America. Non puoi farmene una colpa se ho votato secondo coscienza». Non posso dimostrarlo, ma non mi sbagliavo. Mi sono ritrovato a guardare due uomini in particolare. Indossavano dei cappellini da baseball a fantasia mimetica, uno aveva le braccia coperte di tatuaggi datati, bisbigliavano e ridevano tra loro. Erano le classiche persone che quando vedo in pubblico mi viene da guardare con affetto, facendo considerazioni del tipo «Ah… se i miei amici newyorkesi fossero qui, li guarderebbero e penserebbero che sono degli zoticoni ignoranti eccetera eccetera, ma io ne ho conosciuta parecchia di gente così nella mia vita, e sono capaci, come per magia, di diventare divertenti, bizzarri e compassionevoli quando ci parli». Credo, e ho sempre creduto fermamente nella mia vita adulta, che non riusciamo a vedere gli altri se li osserviamo a distanza, che dobbiamo avvicinarci per capirli almeno un po’ e anche così a volte non è sufficiente. Quella mattina li ho guardati con odio. Non riesco a credere di averlo scritto, ma non c’è altra parola per esprimere quello che ho provato. È stato l’unico momento in cui ho perso la bussola. Non ho alcun desiderio di diventare il genere di persona che si lascia condizionare dalla politica al punto da dimenticare le verità supreme. Siamo tutti confusi e inclini all’errore. Altrimenti, non avremmo bisogno della politica. Dobbiamo difendere con tenacia il rispetto reciproco. Se non lo facciamo, non solo siamo perduti, ma significa anche che la politica non ha mai avuto alcun senso.

Per ragioni che non sono mai riuscito a individuare e da cui un bravo psicoterapeuta potrebbe forse guarirmi, io amo questo Paese. Non un amore tiepido, ma viscerale. Avete presente la frase che ripetevamo da bambini intorno alla bandiera, quando giuravamo fedeltà alla repubblica? Be’, per me vale ancora. Io ci credo ancora. «Ma tu non disprezzavi il nazionalismo?», chiedo a me stesso. Sì. Se fossimo creature razionali, non dovremmo nemmeno star qui a parlarne. Se dovessi difendere questa contraddizione, direi che non è la nazione che amo. È l’esperimento. Quello cominciato due secoli e mezzo fa. La bandiera sta alla nazione come la nazione sta all’esperimento. L’esperimento fu pensato per dimostrare una cosa ben precisa: che un popolo può costruire un Paese non sui legami di sangue ma su una visione condivisa, sui valori alimentati dalle più alte espressioni della tradizione illuminista: libertà individuale, uguaglianza sociale, tolleranza etnica e religiosa, e lo Stato di diritto. Chiunque voglia contribuire all’esperimento era ed è il benvenuto. L’esperimento non è ancora fallito. Ma sta prendendo una brutta piega, e il fenomeno sta subendo una brusca accelerazione. Non conosco nessuna persona sana di mente che abbia qualche dubbio in proposito. Non possiamo assolutamente permettere che l’esperimento finisca.

Che fare? La risposta appare ovvia. Svegliarci. Fare in modo che l’elezione di Donald Trump porti un grande risveglio. Nello specifico, mi rivolgo a persone come me – liberali moderati bianchi di ceto medio-alto e istruzione universitaria – per dirgli, e dirci, di alzare il culo e lottare. È di questo che si tratta, una lotta. Se lo mettete in dubbio, se vi raccontate (forse per ragioni di sopravvivenza emotiva, tutto sommato perdonabili) che questa è un’elezione come un’altra, che Repubblicani e Democratici si palleggiano il potere come in una specie di gioco, e che solo gli sciocchi ne fanno una tragedia, vi state raccontando una favoletta. Citerò un problema solo, sorvolando su una decina d’altri. Il cambiamento climatico. Abbiamo appena eletto un uomo che sostiene che è una bufala. Eppure il cambiamento climatico esiste. C’è bisogno di scriverlo? Non è forse scontato che chiunque sia arrivato a leggere fin qui ne sappia già quanto o più di me sul clima? Ne parlo per completezza. Il cambiamento climatico è in atto, ed è così pericoloso che facciamo ancora fatica a capirne la gravità, così pericoloso da surclassare quasi tutti gli altri problemi affrontati dal genere umano. Come faccio io, un profano, a essere così sicuro? Per un semplice motivo: per gran parte della mia vita sono stato circondato da scienziati. Mi piace scrivere di loro. Una cosa che ho notato è che tutti, indiscriminatamente, amano sconfessarsi a vicenda. Lo amano proprio, come noi amiamo il sesso o il cioccolato. Se sei uno scienziato, e tutti gli altri scienziati sono convinti di una certa cosa e tu scopri che si sbagliano tutti? Hai fatto bingo, compagno. Sei famoso. Sei importante. Perciò, se il 97% dei climatologi è convinto che il pianeta si sta surriscaldando e che siamo in guai seri, e il restante 3% o sono degli squinternati o sono al soldo dell’industria petrolifera, qualcosa vorrà pur dire. Non è come sapere che il 97% dei predicatori crede nella Bibbia. I predicatori vogliono e hanno bisogno di essere d’accordo, altrimenti il loro sistema crollerebbe. Gli scienziati, invece, non solo sono programmati per essere in disaccordo, ma vengono anche premiati se lo fanno. E sul cambiamento climatico sono d’accordo, e sono spaventati, e molti di loro sono depressi (clinicamente depressi), e gli occhi e i dati scientifici ci dicono ogni anno che il loro monito può essere ignorato solo a nostro rischio e pericolo. Ma l’uomo che abbiamo eletto, che sul clima, ne sono abbastanza sicuro, ne sa persino meno di me, è pronto a dirci – a voi che l’avete votato e a me, una persona che lui ha giurato di proteggere – che questa terribile minaccia per la specie umana non sta succedendo. In questo momento si sta circondando di persone che la pensano come lui, o che se non altro hanno trovato conveniente sostenere la stessa idea, e che si comporteranno di conseguenza. Perché dovrebbero negare la realtà? Perché per loro la realtà non è di primaria importanza. Potere, ricchezza, ego: ecco cosa conta davvero. Per loro sono più reali della sopravvivenza della nostra specie. Non è un mio parere e nemmeno un’analisi. È un dato di fatto. Solitario sostenitore di Trump che stai ancora leggendo, ti imploro di mettere sul tavolo questa verità, di lasciarla lì e considerarla così com’è, nuda e cruda. Dimentica la politica, dimentica le frasi sessiste, e pensa ai tuoi figli, o ai figli degli altri. Per la miseria, pensa alla mia di figlia. Questa elezione rischia di essere stato un suicidio. Il suicidio non di un uomo ma di un’intera civiltà. I ghiacciai si stanno sciogliendo, il livello dei mari si sta innalzando, la temperatura sta aumentando. L’uomo che abbiamo eletto sta accanto a Mitch McConnell e sorride fiero.

È il mio presidente, lo so. È il capo della nazione che un attimo fa ho sostenuto di amare. Dovrei rispettarlo? Che cosa significa questo? È una corruzione del termine rispetto. Quello che posso fare è servirlo, comunque. Il modo migliore per farlo è servire la nazione che adesso rappresenta. E il modo migliore per fare questo è cercare con ogni mezzo a mia disposizione di fare in modo che la sua presidenza duri solo quattro anni.

Chi è responsabile per questo stato di cose? Noi, chi altro? La sinistra. Io. Ammettiamolo in tutta franchezza. Siamo degli stupidi. Ci siamo dimenticati di un pezzo enorme di questo Paese. Ci siamo dimenticati della «gente comune». Ci siamo dimenticati dei bianchi della classe media e operaia a cui non piace quello che piace a noi. Abbiamo cominciato a dimenticarcene molto tempo fa. Non erano sexy. E comunque, fra di loro erano abbastanza quelli che di solito stavano dalla nostra parte, quindi non ci siamo mai posti il problema. Non è stato solo un atteggiamento stupido, ma di una irresponsabilità criminale. Stavamo ripetendo un errore che è più vecchio della nostra nazione e che potrebbe segnare il nostro destino: l’incapacità di capire con chi è che condividiamo davvero la stessa causa. Risale alla Ribellione di Bacon. Per vincere, le élite coloniali dovettero prima convincere la «gente comune» a non allearsi con i neri e gli indiani. Il sistema funziona ancora meglio se si riesce a fare in modo che i due gruppi diffidino l’uno dell’altro. Non cadete nella trappola. Una polarizzazione esasperata favorisce l’altra parte. Lo abbiamo appena imparato. Dobbiamo riuscire a parlare agli elettori di Trump. Dobbiamo offrirgli un modello liberale che sia abbastanza stimolante e coerente da influenzare gli influenzabili. Lo scarto fra i due schieramenti è strettissimo e l’equilibrio si può rovesciare.

Quanto al 53% di donne bianche che hanno votato per Trump, non si può dire altro che la loro è stata tutta invidia nei confronti di Hillary.

Queste elezioni devono necessariamente portare a un risveglio del liberalismo, a un’era di rinnovata cooperazione e attivismo da parte nostra, o possiamo scordarci un’altra occasione. Alzatevi e uscite per strada. Smettetela di fissare la pagliuzza delle nostre differenze e guardate la trave della nostra comune emergenza. Andate a protestare contro la costruzione dell’oleodotto insieme ai nativi americani a cui abbiamo sottratto con la violenza la terra su cui camminiamo. Andate nel Sudovest e schieratevi con gli immigrati che vivono nel terrore di essere rispediti a casa. Andate a Washington e fate sapere ai nostri rappresentanti che siete pronti a stendervi a terra davanti ai carri armati se necessario. Fate sapere al resto del mondo che quello che stanno vedendo in tv non è la vera America, o non deve esserlo per forza. Spiegate ai vostri vicini come stanno le cose con dignità e pacatezza, e ascoltateli tenendo a mente che la diversità di opinioni è la garanzia e il fondamento di ogni sistema democratico. Troviamo e costruiamo un consenso crescente intorno a un candidato che non solo possa vincere nel 2020 ma che ci possa guidare anche oltre. Ecco cosa cercherò di fare, di cosa cercherò di essere parte. Sono stato troppo autoreferenziale e pretenzioso nella scelta delle mie battaglie. Credo di essermi dimenticato dell’esperimento. Non ne sono stato un buon alfiere. Ora si cambia. Mia figlia undicenne mi farà mantenere il giuramento. Lei non sa cos’è il cinismo. Io sono con lei.

© John Jeremiah Sullivan, 2016. Tutti i diritti riservati.

John Jeremiah Sullivan collabora con il New York Times Magazine ed è editor della Paris Review. In Italia è uscita la raccolta di saggi Americani (Sellerio 2014).

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