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A cosa servono gli scrittori bianchi?

Jess Row BIGSUR, Editoria, Scrittura, Società

Questo pezzo è uscito originariamente sul New Republic e viene qui riprodotto su gentile concessione dell’autore.

di Jess Row
traduzione di Giuliano Velli

In una piatta settimana dello scorso luglio, mesi prima che Lionel Shriver salisse su un palco di Brisbane con il suo sombrero e la sua appassionata difesa dell’appropriazione culturale, Slate ha pubblicato un’intervista a effetto a Jonathan Franzen, che parlava con sincerità sorprendente, e da quanto ne so per la prima volta, del motivo per cui non scrive di personaggi afroamericani. «Ho pensato di farlo», ha detto Franzen,

ma… non ho molti amici neri. Non sono mai stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una categoria di persone – una persona di un’altra razza, o una profondamente religiosa – penso sia molto difficile azzardarsi, o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di vista.

Quando ho letto del discorso di Shriver – così incendiario eppure così riflessivo, si sarebbe potuto intitolare «Mi sento offeso che ti senti offeso» – mi sono subito tornate in mente le parole di Franzen. Le loro riflessioni, se così possiamo chiamarle, sembrano partire da posizioni diametralmente opposte – Shriver rivendica la libertà creativa di servirsi di tutti i tipi di materiale culturale, mentre Franzen limita il raggio d’azione della sua creatività al ristretto circolo delle persone che ha conosciuto direttamente e amato – eppure entrambi hanno provocato un forte dissenso, persino indignazione, in alcuni. Me compreso.

Sarebbe facile per uno scrittore bianco – diciamo un giovane scrittore bianco, iscritto a un master di scrittura e al lavoro sul suo primo romanzo – guardare a queste reazioni e sentirsi intrappolato in un’impasse creativa, un concetto che gli scrittori bianchi tentano di esprimere, in un modo o nell’altro, da decenni, almeno dai tempi del saggio The White Negro di Norman Mailer e della difesa appassionata che William Styron fece del suo criticatissimo romanzo Le confessioni di Nat Turner. Se mi limito a scrivere di personaggi bianchi – direbbe questo ipotetico giovane scrittore (e in effetti ho sentito degli scrittori pronunciare esattamente queste parole) – verrò criticato perché creo un universo immaginario completamente bianco, ma se provo a scrivere di personaggi di colore, personaggi diversi da me, sarò accusato di «appropriazione» e di «furto». Ciò che questi ragionamenti implicano – proseguirebbe il giovane scrittore – è che gli scrittori bianchi dovrebbero semplicemente smettere di scrivere.

Mi ritrovo spesso oggetto di commenti simili poiché sono bianco e due anni fa ho pubblicato un romanzo, Your Face in Mine, che parla della forma di appropriazione culturale più estrema: la chirurgia plastica per modificare i tratti somatici tipici della razza, quella che i personaggi del libro chiamano «chirurgia di riassegnazione razziale». Uno dei personaggi principali, Martin, è un giovane ebreo bianco che si sottopone a questo intervento chirurgico per «diventare» afroamericano; quando all’inizio del libro facciamo la sua conoscenza, Martin vive, già da dieci anni, a Baltimora da nero senza essere scoperto.

Cosa mi ha spinto a scrivere un libro del genere? Già dai tempi del liceo conoscevo persone, alcune delle quali miei amici intimi, che volevano disperatamente evadere dalla loro condizione di bianchi. Mi sembrava che il desiderio di evasione dalla nostra razza fosse dappertutto, da gesti banali come – nell’esempio fatto da Shriver – «mettersi il cappello degli altri», al cambiare o mascherare la propria identità, fino ad arrivare alla chirurgia plastica radicale. Ma questo desiderio non veniva mai raccontato nella narrativa contemporanea. Sapevo che sarebbe stato rischioso – «Non scrivere questo libro», mi disse il mio agente di allora, «ti procurerà dei problemi che è meglio non avere» – ma pensavo di aver capito come riuscirci. Avrei costruito il romanzo a partire da una serie di discussioni di scottante attualità, in cui nessuna voce «ha la meglio», concentrandomi sull’origine dei nostri desideri e delle nostre fascinazioni razziali: la tristezza, l’incompletezza, i luoghi indefiniti dove nascono i nostri bisogni più inaccettabili. Ma volevo che Your Face in Mine fosse anche un po’ divertente, che mostrasse l’intrinseca goffaggine di uno scrittore bianco che interviene in ritardo (come facciamo sempre) in un dibattito sulla razza. Come ho scritto in un articolo pubblicato in quel periodo, volevo fare uso della «tensione, dell’attrito, delle grandi possibilità del mettersi in ridicolo per una buona causa».

Alla sua uscita Your Face in Mine ha ricevuto una discreta attenzione da parte della critica e, nonostante abbia suscitato alcune reazioni infuriate, nel complesso è stato ben accolto da critici di ogni retroterra culturale. Ero stato toccato profondamente dalla vasta gamma di emozioni che il libro spingeva i lettori a esprimere. Ma avevo fatto caso, in particolare, alle reazioni di alcuni lettori (e scrittori, e editor) bianchi che dicevano:

«Sei davvero coraggioso».
«Meglio tu che io».
«Come ci sei riuscito?»
«Cosa ti ha fatto credere di avere il diritto di scrivere questo libro?»

L’ultima domanda arriva chiaramente al cuore del discorso di Shriver: il fatto che alcuni scrittori e artisti bianchi sentono di non avere il «permesso» per scrivere delle persone di colore, o di chiunque è diverso da loro. Questo solleva una domanda significativa: Chi dà questo permesso? Gli scrittori bianchi, statisticamente, sono quelli più pubblicati, recensiti e pubblicizzati. L’industria editoriale è prevalentemente bianca: secondo l’ultima ricerca, apparsa questa settimana su Publisher’s Weekly, è bianca all’88%. Nessuno ha impedito a Shriver di pubblicare il suo ultimo romanzo, The Mandibles, che non risparmia immagini razzialmente incendiarie di tutti i tipi, tra cui un presidente degli Stati Uniti messicano che parla con la zeppola, e una donna nera portata al guinzaglio per le strade di New York. (A dirla tutta, la maggior parte delle recensioni più importanti non hanno neanche fatto riferimento a queste immagini.)

Viviamo ancora in una cultura in cui ai bianchi viene impedito molto raramente di fare ciò che vogliono, e quando qualcosa gli è vietato o vengono contestati, provano un profondo turbamento. Faccio anch’io parte di questa categoria. È un atteggiamento che ho ereditato e che ho fatto mia per tutta la vita. L’ho battezzato «il sogno bianco». E, come si sa, svegliarsi nel bel mezzo di un sogno non è un’esperienza piacevole. Shriver sembra credere che gli scrittori bianchi – e tutti i bianchi in generale – abbiano diritto a una specie di sogno pubblico, in cui niente di ciò che immaginano o su cui fantasticano dovrebbe essere contestato, criticato e nemmeno interpretato; Franzen, d’altra parte, descrive il modo meticoloso in cui limita il potere della sua immaginazione e della sua empatia. Lo scrittore bianco, nella formulazione Shriver/Franzen, ha diritto a una zona di privacy assoluta e a un’autonomia artistica illimitata; se un critico fa un’osservazione sul loro lavoro tipo «questo personaggio è descritto in modo stereotipato», o «in questo romanzo sociale ambizioso e di ampio respiro sull’America urbana c’è una carenza di personaggi non bianchi», quel critico non si sta limitando a leggerne l’opera ma attacca il loro processo creativo privato, la loro vita onirica.

Sarebbe bello pensare che la narrativa funziona così – un flusso di coscienza non rielaborato, prodotto in uno stato di trance, che in qualche modo si materializza stampato sugli scaffali della libreria con tanto di codice a barre, prezzo e fascetta – ma sappiamo che non è questo il caso. Il romanzo, come scrisse una volta Mikhail Bakthin, è una forma d’arte che ha «la massima area di contatto con il presente». Anche i romanzieri più riservati ed eccentrici – Thomas Bernhard, Samuel Beckett o Theresa Hak Kyung Cha, per citarne alcuni – hanno sempre scritto opere che incalzano spietatamente sul presente.

Shriver e Franzen, al contrario, sono sempre stati degli ambiziosi cronisti pubblici, apertamente critici di quello che Trollope ha definito «il modo in cui viviamo oggi». Il modo in cui viviamo oggi include regolari riprese dal vivo di omicidi di neri da parte della polizia, oltre a un candidato presidenziale che è un suprematista bianco esplicito e impenitente. «Il tema della razza va forte al momento», dice Franzen, un po’ desolato, nella stessa intervista, e dato che il tema della razza va forte davvero, molti dei libri nuovi che ricevono maggiore attenzione, quelli che tutti Dobbiamo Leggere, sono impregnati dei complessi temi politici del nostro tempo – Citizen di Claudia Rankine, The Underground Railroad di Colson Whitehead, o Lo schiavista di Paul Beatty – mentre i nuovi romanzi importanti di DeLillo e Franzen, anche se ricevono un’attenzione di tutto rispetto, non sembrano esattamente incendiare lo spirito del tempo come facevano prima. Come Kaitlyn Greenidge ha riassunto nella sua risposta a Shriver sul New York Times: «Per quelli che non hanno prestato attenzione deve sembrare un capovolgimento del destino».

Il problema in questione, però, non è che agli scrittori bianchi, e agli artisti bianchi in generale, non è mai stato insegnato o richiesto di pensare alla loro opera in termini razziali. La domanda veramente fondamentale di questo dibattito è: a cosa servono i romanzi? A cosa servono i romanzieri? Per più di un secolo la posizione standard del mondo letterario angloamericano è stata che la narrativa è apolitica, anche quando registra il presente nei suoi minimi particolari. «Lo spirito della buona narrativa», dice Shriver, «è uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia e compassione» – ma non di dibattito né di critica. La narrativa politica, stando a questa norma, è intrinsecamente un compromesso, una «contraddizione in termini».

Questo standard però è sempre stato applicato selettivamente. Ho potuto constatarlo chiaramente quando, nel 2007, ho partecipato a un incontro a New York con un gruppo di scrittori, tutti più o meno della stessa età, che erano stati nominati «I migliori giovani romanzieri americani» da Granta. A noi scrittori bianchi, americani nativi, venivano poste domande generiche sul processo creativo e sull’origine delle nostre idee. All’altra metà del gruppo invece – quelli nati in Nigeria, India, Perù, Russia – veniva chiesto se scrivessero anche nella loro «lingua nativa», e, se rispondevano no, per quale motivo non lo facevano? Cosa significa per te, veniva chiesto a tutti, essere definito uno scrittore americano?

È stato in quel periodo che ho capito per la prima volta quello che gli scrittori non bianchi imparano in modo praticamente automatico: per uno scrittore di narrativa negare che la fiction sia in qualche modo politica – nel senso che esiste in un mondo intrinsecamente politicizzato – non solo è un atto di malafede, ma un fallimento artistico. Come possiamo, noi scrittori, non comprendere che la nostra vita politica, la nostra soggettività, la nostra cittadinanza, la nostra identità culturale e razziale, e i temi del nostro tempo, sono materiali artistici, che tutto questo, in un certo senso, è parte di un dialogo in corso?

Il mio istinto mi dice che Shriver, come molti altri scrittori, non vuole fare questo salto perché un dialogo richiede un certo livello di responsabilità. Dire che The Mandibles dovrebbe essere letto in congiunzione con The Sellout, come sicuramente dovrebbe, implica che dobbiamo guardare a queste due fantasie distopiche, entrambe a modo loro da incubo e connotate razzialmente, e chiederci: quali sono gli elementi in comune, e cosa possono dirci l’una dell’altra queste fantasie? Giustapporre Le correzioni a, per dire, The Turner House di Angela Flournoy – famiglie allargate del Midwest che lottano con case cadenti­­, segreti che si tramandano di generazione in generazione, anziani uomini infermi tormentati dai fallimenti del passato – significa affermare che Le correzioni è, ed è sempre stato, una storia sul declino della classe media bianca del dopoguerra, proprio come The Turner House è, come tutti i critici hanno già sostenuto, un libro sul tracollo della classe media nera di Detroit nei decenni successivi alla Grande migrazione afroamericana.

In un discorso del 1987, pronunciato dopo aver vinto il Jerusalem Prize, J.M Coetzee parlò di quello che percepiva come un difetto fatale della cultura sudafricana bianca, e in particolar modo della sua letteratura: «Al cuore della loro oppressione», disse, «c’è un’incapacità di amare». Questo brano mi perseguitava dopo aver finito di leggere l’intervista a Franzen: dov’erano, mi chiedevo, l’autocritica, i dubbi sul fallimento spirituale e artistico, il desiderio di poter conoscere, e amare, il suo paese e la sua cultura in modo più profondo e completo? Allo stesso tempo ci si potrebbe anche chiedere: dov’è la curiosità di Shriver, e dov’è la sua compassione, quando si tratta dei punti di vista di persone che associano atti simbolici, come indossare un sombrero, con traumi storici molto più profondi? Non è anche questo parte dello scopo della narrativa? Parte di quello che l’autrice descrive accuratamente come «la realtà straordinaria dell’altro»?

Non è di questo che si discute al momento. Discutiamo di quella che Greenidge definisce «paranoia per una censura inesistente». I bianchi – scrittori, critici, editor, insegnanti – hanno ancora la stragrande maggioranza dei posti di lavoro, dello spazio sulle rubriche culturali, della copertura dei media, del potere discriminatorio e, ovviamente, dei soldi. La «crisi» di Shriver è, in ogni senso concreto e dimostrabile, una fantasia – il brutto sogno di un artista influente e di successo, in cui qualche censore o critico senza volto, o qualche infuriata persona dalla pelle scura, arriverà a togliergli tutto. Questo sarebbe un eccellente tema per un romanzo. Ma solo se il romanzo mettesse in chiaro che a un certo punto l’artista si sveglia, si guarda intorno e si rende conto che niente è cambiato, eccetto forse il suo punto di vista.

© Jess Row, 2016. Tutti i diritti riservati.

 Jess Row è autore del romanzo Your Face in Mine. È al lavoro su un nuovo romanzo e su una raccolta di saggi sulla razza e la letteratura americana, White Flights.

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