FERNANDO GARCIA PONCE RETROSPECTIVA

Juan García Ponce, o della dimenticanza ingiustificata

Stefano Tedeschi Racconti, Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi la prefazione di Stefano Tedeschi al volume Incontri, raccolta di racconti dello scrittore messicano Juan García Ponce di recente pubblicata da Editori Internazionali Riuniti, ringraziando autore e editore.

«Juan García Ponce, o della dimenticanza ingiustificata»
di Stefano Tedeschi

In tutte le letterature del mondo ci sono autori che all’interno dei confini dei propri paesi sono considerati, pressoché in modo unanime, dei veri e propri “classici”, scrittori che hanno segnato tutta un’epoca e che sono ineludibili sia per gli anni in cui hanno operato che per le generazioni successive, e che invece fuori da quei confini risultano al contrario quasi del tutto sconosciuti, poco e mal tradotti, relegati alla citazione colta degli specialisti universitari, o alla catacombale conoscenza di pochi iniziati.

Lo scrittore messicano Juan García Ponce (1932-2003) appartiene a tale categoria in modo quasi paradigmatico: reputato in Messico come uno dei grandi del Novecento, un “classico contemporaneo” a tutti gli effetti, di lui in Italia (ma potremmo dire più in generale in Europa), non si sa praticamente nulla: si registrano solo due racconti tradotti, di cui uno, “La notte” in una monumentale antologia di narrativa ispanoamericana del 1973, e l’altro, “Tajimara”, in una minuscola collezione dell’editore torinese Lindau nel 2002, sparito dalla circolazione con la stessa velocità con cui era apparso.

Eppure la sua opera non è solo una delle più vaste della letteratura messicana, ma anche tra le più variegate: oltre allecinque raccolte di racconti, García Ponce pubblicò quattordici romanzi, tra i quali si ricorda in particolare il fluviale Crónica de la intervención (1982, due volumi per quasi duemila pagine), ventotto libri di saggi, letterari – fondamentali quelli su Musil, Thomas Mann, Klossowski, Pavese – e di arte – altrettanto importanti quelli su Klee, Tamayo, Leonora Carrington – ma anche cinque opere di teatro, traduzioni dal tedesco (Marcuse), dal francese (Klossowski) e dall’inglese (Styron), oltre a una manciata di sceneggiature per il cinema e a un gran numero di articoli sulle più importanti riviste letterarie del Messico tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso – la «Revista Mexicana de Literatura», «Vuelta», «Plural» – riviste di cui fu fondatore, direttore, articolista, collaboratore nelle più diverse maniere.

D’altronde García Ponce appartiene a quella Generación de Medio Siglo che rappresenta forse il più geniale e produttivo gruppo di scrittori e intellettuali del Messico del ventesimo secolo, purtroppo assai poco conosciuta dalle nostre parti, e lo stesso García Ponce ricorderà così quegli intensi anni di formazione:

Non dimentico […] le nostre riunioni per progetti culturali alla Casa del Lago, che allora ci sembravano un incerto prodotto delle nostre manie e delle nostre particolari ossessioni, quando la dirigevano prima Tomás Segovia e poi Juan Vicente Melo. Lì si fece teatro in una sala che non era per il teatro, lì si lesse poesia ad alta voce, si realizzarono esposizioni di quadri in una sala che non era per esposizioni, si diedero conferenze su artisti conosciuti ealtri di cui nessuno parlava tranne noi. […] Forse queste righe possano essere giudicate come una difesa sospetta della nostra generazione da parte di uno dei suoi componenti. Il giudizio sarebbe corretto. È una difesa, la difesa che da sempre abbiamo dovuto pronunciare per mezzo delle nostre opere e attività culturali e nonostante la nostra poco raccomandabile condotta contro la stupidità, il nazionalismo, i criteri moralisti, i burocrati di ogni tipo, gli uomini con le idee politiche giuste, e le madri e i padri di famiglia, inclusi i nostri padri e madri […].

Da quella scintillante generazione, che ebbe come numi tutelari le figure – gigantesche e un po’ ingombranti – di Octavio Paz e Carlos Fuentes, nacquero le opere più brillanti della cultura messicana della seconda metà del Novecento, e quella di García Ponce non fu certamente la minore tra esse, testimonianza appassionata di una assoluta fedeltà alla letteratura, come lo stesso scrittore ricordò nel 2002, in occasione del Premio Juan Rulfo che gli fu assegnato quell’anno, e come evidenzia il critico messicano Adolfo Castañón:

Estesa, rigorosa, versatile, ormai innumerevole, l’opera di Juan García Ponce è anche notevole per la qualità dei sentimenti, per la nobiltà delle qualità intellettuali e cordiali che in essa si dispiegano. L’estensione della sua opera ci riporta all’avidità, quando non alla voracità, di questa esigente vocazione letteraria che Juan García Ponce ha dovuto incarnare; ci riporta peraltro alla disponibilità per incarnarla, alla volontà e alla decisione che hanno portatoJuan García Ponce a vivere nella letteratura e per la letteratura e a fare dell’esercizio della parola un destino.

Ci si dovrà dunque domandare perché, di fronte a tanta varietà e ricchezza, la sua fortuna fuori dal Messico sia stata così scarsa. Al di là di una oggettiva complessità e di una certa forma di ripetizione nelle sue opere narrative, una delle ragioni potrà essere individuata nel fatto che i suoi romanzi e racconti appartengono in grande misura a un certo tipo di narrativa che potrebbe essere chiamata “narrativa da camera”, in cui vengono previlegiati gli spazi privati, le storie individuali, ossessioni e manie singolari, che si vanno ripetendo in temi e situazioni a volte assai simili. In un momento in cui il pubblico europeo amava i grandi romanzi totalizzanti di García Márquez, Fuentes o Vargas Llosa, un’America Latina così sorprendentemente simile al vecchio continente non poteva che lasciare interdetti, e si preferì, da parte delle case editrici e dei divulgatori culturali, lasciarla da parte, senza farsi troppe domande sui suoi indubitabili valori letterari.

D’altronde in García Ponce, come nei suoi contemporanei, non è possibile trovare concessione alcuna a un folclorismo di maniera, o a un’immagine stereotipata del Messico, ma nemmeno a riflessioni sull’identità nazionale o a richiami al passato preispanico e al mondo indigeno. I suoi temi preferiti sono assolutamente universali come lui stesso ricorderà nel discorso del 2002 cui si è già accennato: «Mi rendo conto che i miei temi ossessivi sono l’amore, l’erotismo, la morte, la pazzia e l’identità», temi che vengono inoltre declinati in spazi del tutto privi di qualsiasi tipo di colore locale. Il tuttoera davvero troppo poco “latinoamericano” e venne dunque ignorato.

Non si dovrà poi dimenticare che García Ponce è stato uno scrittore che per più di trent’anni si è trovato a lottare con la sclerosi multipla, prolungando la sua vita al di là di tutte le diagnosi mediche, e se la sua instancabile attività intellettuale gli permise in qualche modo di dominare le conseguenze più invalidanti della malattia, non gli concesse certo quella forma di presenzialismo così necessaria alla diffusione editoriale, in una realtà in alcuni casi più attenta alla mondanità che ai reali valori letterari.

Questa esperienza della malattia segna peraltro proprio alcuni aspetti cruciali della scrittura di García Ponce, evidentemente non in un senso meramente biografico quanto piuttosto nell’obbligata adozione di un punto di vista del tutto peculiare sulla vita. Ecco allora che l’insistenza sul tema del corpo, che così acutamente ha segnalato Adolfo Castañon, verrà forse da una esasperata attenzione al proprio corpo che sa però dialogare con le riflessioni di Klossowski e di altri grandi del Novecento, in cui il corpo fisico diventa poi scintillante corpo testuale; e la centralità dello sguardo e della visione nella sua narrativa non potrà che collegarsi a quella immobilità progressiva che sa però coniugarsi con una passione mai sopita per la pittura e l’arte figurativa.

In questa vasta e multiforme opera, il trittico narrativo che ora la casa editrice propone al lettore italiano rappresenta, secondo le parole di Octavio Paz, una sorta di «precipitato, nel senso chimico del termine, delle sue storie, delle sue invenzioni, delle sue ossessioni». Il grande poeta messicano dedicòal libro di García Ponce una lunga e splendida recensione in occasione della ristampa messicana del 1979, e non sarà possibile in queste brevi righe evitare di lasciarsi guidare dalle parole di un precedente tanto illustre.

D’altronde sarebbe difficile trovare parole migliori per presentare i primi due racconti della raccolta che quelle di Paz:

Nonostante la stranezza del tema, “El gato” è il racconto che con maggiore fedeltà si adatta allo stile abituale di García Ponce. Una coppia trova un gatto, o meglio il gatto li trova. Essi accettano con naturalezza la presenza di tale intruso nei loro giochi erotici; quasi senza rendersene conto, il piccolo animale si trasforma in un talismano: senza «lo sguardo fisso di quegli occhi gialli socchiusi sul suo corpo nudo» lei non riesce a concedersi, né lui realmente la desidera. La loro passione dipende da un terzo elemento: una piccola presenza animale, enigmatica come il desiderio e che, come esso, viene dall’oscurità, e li conduce verso l’ignoto. Il tema de “La plaza” è anche qui quello di un incontro, non con un inviato dal mondo del desiderio, ma con il tempo stesso […], un tempo più vasto, un tempo che non passa, anche se sta passando da sempre.

Dunque i primi due racconti esprimono al meglio due dei temi ossessivi che poi ricorderà García Ponce: l’amore e l’erotismo, cui però si aggiunge anche quello di un inatteso contatto tra gli esseri umani e una dimensione della realtà chesupera quella meramente esistenziale, senza però mai negare la corporeità, quasi a voler raggiungere una sorta di illuminazione attraverso l’erotismo e la materialità del corpo. In tal senso si potrà parlare, come fa lo stesso Paz, di una peculiare forma di esperienza religiosa: «García Ponce non è credente ma nei suoi testi più riusciti c’è un momento in cui la sua sensibilità raggiunge una zona magnetica; è più facile sentire il fascino di questi passaggi che definirli: si tratta di una sorta di estasi religiosa che non sarebbe inesatto chiamare quietista».

Nel racconto lungo che segue, “La gaviota”, la stessa attenzione alla dimensione amorosa ed erotica dell’esistenza si collega a un altro dei temi preferiti di García Ponce, quello dell’innocenza, legata alla passione estiva tra due giovani amanti, tema peraltro non troppo frequentato dalla letteratura messicana, e qui invece splendidamente rappresentato, in un paesaggio marino dal fascino straordinario. In questo, che si potrebbe definire a ragione quasi un “romanzo breve”, la prosa di García Ponce acquista una perfezione e una trasparenza dal valore assoluto: nonostante la sua vicinanza e l’interesse da sempre mostrato per sperimentazioni dell’avanguardia – in letteratura e nelle arti figurative –, nella sua scrittura l’autore messicano non ha mai tentato quegli itinerari sperimentali. Si può anzi definire la sua scrittura come uno degli esempi meglio riusciti di una prosa di stampo classico: l’intrecciarsi di periodi complessi, di lunghe frasi incidentali, di una sofisticata ricerca di un lessico e di un’aggettivazione essenziale e precisa, avvolgono il lettore in una spirale e in un vortice che si avvicinano di molto a quelli provati dai due giovani protagonisti del testo, quasi a voler trasformare la passività della lettura in una attiva partecipazione agli eventi narrati, alle passeggiate sulla spiaggia, alle visite al cimitero sul mare, al crescere progressivo dell’attrazione tra i due adolescenti.

In tal modo García Ponce, in questi tre testi, dall’impressionante perfezione formale, riesce a creare in maniera ineffabile un suo proprio mito, come lui stesso afferma in uno dei testi dedicati a uno dei pittori più significativi della sua generazione, José Luis Cuevas:

Ogni vero artista crea i suoi propri miti. La sua interpretazione della realtà, anche se da essa parte e attraverso l’opera alla fine la illumina, aspira sempre a ottenere una specie di sostituzione. L’opera è per lui il luogo dell’incontro: incontro con se stesso, con le proprie ossessioni, con la propria necessità di cambiare le cose o di accettarle, con le proprie nostalgie, manie e perfino menzogne. In essa l’artista veramente vive; trova la sua realtà, il suo ambito naturale, quello in cui l’immaginazione è sempre azione, in cui la verità può essere menzogna, e la menzogna trasformarsi in verità. Padrone di questo mondo, si affida completamente ad esso, e il mezzo più importante della creazione è esattamente la necessità di renderlo possibile. In tal senso, l’artista è sempre il sognatore, l’inventore di storie; ma è anche colui che è capace di trasformarle in verità. La base della sua attività è sempre demoniaca e antisociale, in quanto aspira a confondere la realtà, ad abbattere i suoi limiti e a vivere una vita oltre la vita, il cui regno è l’immaginazione e che viene organizzata dalla forma, l’elemento capace di creare il suo proprio ordine.

E nonostante ciò, il suo mondo ci porta sempre verso il mondo. Nelle opere d’arte più personali, nutrite dalle ossessioni più singolari, è sempre possibile trovare una verità generale, collettiva, che in qualche modo ci rivela la nostra propria immagine, ritorna alla realtà per chiarircela, scoprendo i suoi aspetti più segreti. In questo modo il mito diventa vero e ci appartiene a tutti.

In tal senso allora gli “Incontri” che García Ponce ci propone sono incontri con un mito possibile, con quei miti che, come quelli antichi, riescono, in attimi che sembrano infiniti, a illuminare un destino, e a riscattarci da quell’inespresso timore nei confronti della vita che tanto spesso ci opprime, senza razionali spiegazioni apparenti.

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