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Dario Matrone #InCasaEditrice Lascia un commento

In questi giorni la redazione si è sparpagliata nelle case di tutti noi: ecco allora i dispacci dalle sedi distaccate di SUR, che mai come adesso si sente una CASA editrice. Oggi scrive Dario Matrone, editor e redattore.

Cari lettori,
in questo gioco di autocoscienza editoriale che sono diventate le nostre newsletter dalla quarantena anch’io, come Giulia, Martina, Maria e Marco prima di me, voglio parlarvi di un libro del catalogo SUR che per me ha un grande valore, anche affettivo. Lo abbiamo pubblicato nel 2016, nel primo periodo di vita della nuova collana BIG SUR, e dal mio punto di vista rappresenta l’espressione perfetta della vocazione eclettica che volevamo imprimere alla neonata serie di libri, in cui convivono costa a costa titoli di literary fiction contemporanea e classici del Novecento (oltre che titoli di narrativa e titoli di saggistica), con incursioni sporadiche ma mirate nelle letterature «di genere».

Quando Tommaso Pincio ci ha proposto di pubblicare Warlock, il capolavoro di Oakley Hall, un classico della letteratura western risalente al 1958 con un pedigree editoriale d’eccezione (finalista al National Book Award nel ’58; libro amatissimo ed elogiatissimo niente meno che da Thomas Pynchon; inserito più recentemente nella serie Classics dalla prestigiosa New York Review Books), non posso però dire che fossimo preparati. Avevamo parlato di generi, sì; ma pensavamo alla fantascienza, al thriller, al noir. Questo invece era un western. Nessuno di noi frequentava la letteratura western, e avevamo una conoscenza appena sommaria del genere anche nella sua incarnazione cinematografica. C’era poi una considerazione che non potevamo evitare, di natura commerciale: chi avrebbe comprato un romanzo western, nell’Italia del 2016? Non rischiavamo un gigantesco flop?

 

Warlock

 

Warlock però era molto di più di un semplice western. Se a un primo livello la storia si presenta come la rielaborazione colta di un episodio della mitologia popolare della Frontiera americana, la sparatoria all’O.K. Corral, intorno a quell’episodio Oakley Hall costruisce un mondo assai più complesso e indagato con la profondità psicologica e il rigore morale che solo i grandi scrittori possiedono. A Warlock, la cittadina che dà il titolo al libro, non ci sono soltanto pistoleri e sceriffi – e anche i pistoleri e gli sceriffi non sono come ce li aspetteremmo. Ogni personaggio si libera del suo ruolo stereotipato, della sua uniforme per così dire (letteraria o cinematografica), e diventa un uomo o una donna in carne e ossa, ognuno con le sue motivazioni, le sue bassezze, i suoi slanci di generosità e di amore. Non ci sono eroi a Warlock, e allo stesso tempo sono tutti eroi.
Confesso di aver empatizzato molto con alcuni di questi personaggi, anche con quelli secondari e meno eroici (perché Hall è un grande burattinaio di personaggi secondari, come dimostra anche nel terzo capitolo della sua trilogia western, l’affollatissimo e rocambolesco Apaches). C’è il giudice Holloway, zoppo e alcolizzato, inascoltato fustigatore delle pulsioni giustizialiste dei cittadini di Warlock, rumoroso ma imbelle come sono in fondo tutti i moralisti. C’è la signorina Jessie Marlow, l’«angelo di Warlock», instancabile paladina dei diritti degli ultimi (che a Warlock si identificano con i minatori, in sciopero contro i loro padroni). C’è il mefistofelico Tom Morgan, proprietario del saloon Glass Slipper, spregiudicato e calcolatore, ma leale alla sua amicizia con il marshal Clay Blaisedell fino alla morbosità e all’autolesionismo. C’è Blaisedell, appunto, e con lui la sua nemesi: Bud Gannon, il vicesceriffo, un brav’uomo investito di una responsabilità troppo più grande di lui.
Ma, se al centro del romanzo c’è essenzialmente la dinamica tra i due uomini d’ordine, il marshal Blaisedell e il vicesceriffo Gannon, che si configura come il classico rapporto eroe-antieroe (e la bravura di Hall come narratore sta nel non farci mai decidere chi dei due sia l’eroe e chi l’antieroe), sono i loro comuni nemici a dare il sale e il colore alla storia: i «cowboy», questi mezzi fuorilegge che vivono di allevamento e di furti di bestiame ai margini della comunità, e che con le loro risse e le loro sparatorie sono il flagello di Warlock e il terrore dei suoi abitanti. Impossibile dimenticare il terribile Jack Cade, sempre pronto a colpire alle spalle, un violento senza speranza; o Curley Burne, il compagnone, quello a cui tutti (anche i cittadini perbene) sono affezionati, quello che sa trarre melodie dolcissime dalla sua armonica mentre si allontana a cavallo; o il capo dei cowboy, il rispettato Abe McQuown, un giusto, benché un delinquente. (E i loro nomi, poi. Anche quelli non
me li dimentico più. Una volta uno scrittore italiano che stimo molto, Giordano Tedoldi, ha detto che un grande romanziere si riconosce anche per l’abilità nello scegliere i nomi dei suoi personaggi: e che dire di nomi come Curley Burne, Abe McQuown, o ancora Henry Goodpasture, Kate Dollar, Pike Skinner, Chick Hasty, se non che sono nomi rari, evocativi, eppure così veri?)
Le vicende di tutti loro si compongono in un maestoso romanzo corale, con non una, ma cento trame e sottotrame che si intersecano facendo esplodere le contraddizioni di una piccola comunità alle prese con il dilemma basilare di ogni consorzio umano: il rapporto tra l’individuo e la collettività, che è poi il rapporto tra la Libertà e la Legge. E Oakley Hall maneggia questa materia delicatissima, quella delle scelte morali, da vero romanziere, utilizzando i «fatti» per far emergere la «verità». Come spiega l’autore nella Nota introduttiva: «La struttura del racconto è frutto dell’intreccio di eventi reali con altri inventati. Nel fondere ciò che davvero accadde con ciò che potrebbe essere accaduto, ho tentato di mostrare quel che sarebbe dovuto accadere» (il corsivo è mio).
Mi è rimasto dentro molto, di questo libro, a distanza di tanti anni da quando l’ho letto la prima volta e poi la seconda, nella bellissima traduzione di Tommaso Pincio. Oggi mi dico che abbiamo fatto bene a vincere i nostri timori e a pubblicare Warlock, non soltanto perché il libro si è venduto bene, ha ricevuto molti elogi dai recensori e si è guadagnato un piccolo fandom anche qui da noi, ma proprio perché è un libro di quelli che ti restano dentro e che ti fanno sentire orgoglioso di lavorare per un editore «di catalogo» – cioè un editore che giudica il valore dei libri sulla lunga distanza e non sull’immediatezza della prima uscita. Warlock era un grande libro quando uscì in America nel 1958, era un grande libro quando l’abbiamo pubblicato noi nel 2016, e resterà un grande libro anche fra dieci o cento anni.
Per chiudere questo mio lunghissimo outing vi lascio con una delle prime pagine di Warlock, in cui la «macchina da presa» di Hall si sposta da una panoramica del villaggio a un piano ravvicinato su uno dei protagonisti, il già citato Bud Gannon, seguendo il turbinio dorato della polvere. Buona lettura!

 

Warlock sorgeva su un altopiano bianco e alcalino, cinto per metà dai monti Bucksaw a est e sovrastato da un cielo metallico. Col sole pomeridiano, i cui raggi obliqui giungevano dalle lontane vette dei Dinosauri, una leggera patina gialla accendeva le costruzioni di adobe e assi scolorite dal tempo, con le loro facciate posticce, mentre ombre nere e ben disegnate si aprivano come fòsse negli angoli non toccati dal sole.
Il calore del sole era una coltre; aveva peso e dimensioni. Velata da calore e polvere, la città appariva sfocata. Un carro con un serbatoio arrossato dalla ruggine procedeva lento per Main Street, spruzzando dietro di sé un nastro scintillante di acqua. Ma la polvere di Warlock si posava solo per poco. Tornava presto ad agitarsi, leggera come l’aria, smossa dalle ruote cerchiate di ferro, dagli zoccoli, dai tacchi degli stivali. La polvere si sollevava e restava sospesa per poi accumularsi, in una pioggia perenne, sulla prigione e l’emporio di Goodpasture, sul Lucky Dollar e il Glass Slipper e i saloon più piccoli, sulla sala da biliardo, il Western Star Hotel, il Boston Café e laWarlock and Western Bank, sulle case della Row, i postriboli lungo Peach Street, sulla scuderia e il deposito per carrozze di Kennon e lo scalo merci, sullo spiazzo delle diligenze di Buck Slavin e l’Acme Corral dei fratelli Skinner in Southend Street, sul Deposito granaglie e foraggi e sulla pensione del generale
Peach in Grant Street, sulle baracche dei minatori rivestite di cartone catramato, sui carri e gli uomini a cavallo e sul resto della gente che passava in strada. Penetrava negli occhi e irritava le gole secche, ammantava tutti di un lucore biancastro e si tramutava in fango col sudore del viso.
I sentieri e le piste di carri e diligenze confluivano in città come raggi contorti di un mozzo polveroso. Venivano dalle miniere di argento situate nelle alture più vicine della catena dei Bucksaw: la Medusa, la Sister Fan, la Teti, la Pig’s Eye e la Redgold; dal villaggio di Redgold e dal suo frantoio a martelli; dal più distante villaggio di San Pablo e dalla valle e dal fiume che portavano lo stesso nome; da Welltown a nordovest, dove passava la ferrovia; da Bright’s City, sede amministrativa del territorio.
La polvere si sollevava anche lungo le strade battute dai viaggiatori: un cercatore d’oro col suo burro; un gruppo di uomini venuti a cavallo da San Pablo; i grandi carri che scendevano dalle miniere sulle loro grosse ruote, traboccanti di minerali; i carichi di legname trainato dalle foreste delle montagne a nord e destinato alle gallerie delle miniere; una diligenza in arrivo da Bright’s City; e, sulla strada per Welltown, un cavaliere solitario che si avvicinava, avanzando lento tra gli enormi e sparsi massi ai margini di Warlock.
John Gannon cavalcava piegato stancamente in avanti per contrastare la pendenza, la mano sulla spalla sudata e polverosa della giumenta grigia che aveva comprato a Welltown e che ora incitava a superare quell’ultima altura dal terreno accidentato, finché, guadagnata la cima, alla vista della città, l’animale accelerò da sé l’andatura. Gannon diede un’occhiata alla sua destra, al brutto sentiero che portava al cimitero, la Collinadegli Stivali, e alla discarica, dove vide il sole scintillare su alcune bottiglie di whisky e un mucchio di fogli agitati da una raffica di vento.

Oakley Hall, Warlock, traduzione di Tommaso Pincio

 

A presto,
Dario

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