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Álvaro Enrigue racconta Cortázar e Lezama Lima

Álvaro Enrigue SUR

Álvaro Enrigue si lascia ispirare da una famosa fotografia di Cortázar e Lezama Lima per raccontare due grandi maestri della letteratura latinoamericana.
L’articolo, uscito originariamente su El Universal viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Álvaro Enrigue
traduzione di Giulia Zavagna

C’è una foto di Cortázar e Lezama Lima. Dev’essere del ’65. Probabilmente sono a Cuba perché Lezama non ha mai lasciato l’isola. La sua agorafobia era così intensa che si narra il suo unico tentativo di viaggio fu per la Jamaica, poi arrivò fino a Veracruz, ma senza scendere dalla nave. Sono seduti a un tavolo col piano in marmo sul quale si notano, di fronte a Cortázar, una cartellina di pelle e di fronte a Lezama due libri. Nel momento dello scatto l’argentino stava parlando. Ha le mani tese di fronte a sé, come se fosse sul punto di lanciare un incantesimo sulla sua cartellina – e l’avrebbe poi fatto: in quella cartellina sarebbe giunto a Parigi, qualche giorno dopo, il manoscritto di Paradiso.

Nella foto Cortázar è ancora giovane: non ha la barba, ma sfoggia grandi basette. Ha un taglio di capelli che ricorda Serrat o un Elvis più magro: i belli dell’epoca. È vestito secondo la moda del tempo: giacca e pantaloni stretti di cotone, camicia di lino con il primo bottone aperto, scarpe scamosciate scure – potrebbe essere un gregario galantuomo della Dolce vita. Lezama, invece, indossa un completo di lana totalmente fuori luogo nel caldo tunisino dell’Avana: l’intera umanità era già innamorata di Coltrane e Sofia Loren e lui ancora con la vita dei pantaloni praticamente ascellare. Ha il colletto della camicia chiuso fino in cima, con l’ultimo bottone sul punto di saltar via per la pressione della pappagorgia più famosa – non solo perché fu la più grande – della letteratura latinoamericana. Sta fumando un sigaro e osserva quel ragazzo appena sceso da un aereo Air France con timorosa diffidenza. Si nota che fino a poco tempo prima i Lezama erano di pelle scura, che hanno del sangue dei caraibi, o forse filippino o indiano. Sta fumando un sigaro e quella mattina ha scordato di farsi la barba. Doveva pesare, allora, circa duecento chili – non so quanto fosse alto Lezama ma, sebbene siano entrambi seduti, nella foto sembra che il cubano non si faccia intimorire dall’altezza da lampione dell’argentino.

Questa è la foto che ritrae il maestro cartesiano, il padrone della scrittura ordinata nella traduzione ispanica recente, mentre si avvicina con cautela al sacro fervore della letteratura. Accanto a Lezama, Cortázar, che a sua volta coltivò così bene e con tanta discrezione l’immagine dello «scrittore per davvero», sembra un assicuratore, un agente immobiliare, il tenero professore di lettere di una scuola privata. L’altro appare invece per quel che era: un mistero, un intreccio, una distanza; la cosa più simile a un messia che ci sia mai stata nella scrittura letteraria.

La mia interpretazione della foto è parziale, ovviamente. Riconosco che uno scrittore ispanofono che non sia cortazariano nell’anima sia uno scrittore povero, e credo ancora che Le armi segrete e Bestiario siano dei capolavori, ma Lezama giocava un’altra partita e, se mi permettete, in un altro campo. Torno felicemente ai libri di Cortázar quando insegno, ma leggo le poesie di Lezama perché ne ho voglia, perché a volte ho bisogno di tagliare con tutto e affacciarmi a un ponte, un grande ponte, perché il mio spagnolo sarebbe schiavo senza di loro e non credo che gli scrittori si servano della lingua, ma anzi che siano al suo servizio: la lingua è quello splendido animale di cui ci limitiamo a trasportare i geni.

La foto di Lezama e Cortázar mi è arrivata come un messaggio in un orto sulle montagne della costa tirrenica della Sicilia dove mi sono nascosto nel tentativo di finire un romanzo. Senza Internet, senza cellulare, senza tv né radio né telefono fisso. Per arrivare in un posto da dove potrò inviare questo articolo mi toccherà guidare per venticinque minuti. I miei figli sono già abbronzatissimi e ogni tanto interrompono i loro giochi misteriosi per arrampicarsi su qualche albero e raccogliere tutta la frutta che trovano. Camminano scalzi su pietre bollenti e taglienti e si tuffano come pesci da rocce altissime anche se soffia il Maestrale o il Levante. Ormai sono convinti che mangiare pollo sia una schifezza, che cuocere un frutto di mare sia fare un passo indietro. Finalmente, si sono civilizzati.

La foto mi è arrivata dal Messico, stampata in un libro. Un album biografico di Cortázar che non avevo mai visto anche se Alfaguara l’ha pubblicato nel 2013. I memorabilia cortazariani sono straordinari, una delizia da leggere qua e là con lo spritz di metà pomeriggio nella piazza normanna di Cefalù mentre i bambini domano lo Scirocco fra le onde con gli altri bimbi cartaginesi, ma il testo che leggo e rileggo da quando mio suocero ha tirato fuori il libro dalla valigia dicendo che è davvero impossibile farmi un regalo – eppure non lo è stato! –, è una lettera inedita – breve, due pagine – in cui Lezama propone una poetica di Paradiso.

La lettera di Lezama mi è apparsa in uno di quei momenti in cui l’unica cosa che possiamo fare è finire un romanzo che però non ha ancora una forma chiara, non è ancora padrone di un ordine che lo renda leggibile. «Non vedo una successione di parole», dice il cubano. «Vedo protuberanze, corpi che si stiracchiano, nel senso in cui uno stratega dice “tempo di occupazione” di una piazza». Leggendola ho avuto l’impressione, anche se è una cosa tremendamente volgare da dire, che Lezama di parlasse da un oltretomba fatto di stagni, narcisi e api: il romanzo è soprattutto un esercizio di invenzione dello spazio, di collocazione di uno spazio nella distanza: «Ogni distanza crea un albero, ogni albero una casa, ed entrandoci, ogni albero il romanzo». Uno spazio che si inserisce dove non c’era nulla da occupare, con un presente artificiale, esoterico, il presente tangibile degli altri: «Tutto si accumulava nel presente come negli ideogrammi cinesi, dove non ci sono tempi verbali. Tutto si accumulava – il presente è l’immortalità, dicono i mistici orientali». Un romanzo non è bello né per quello che racconta né per come lo racconta – due grandi luoghi comuni –, ma perché l’alchimia che lo regge è diventata permanente senza che l’autore lo meritasse. Non si spiega, non ha una formula, è pura volontà di esistenza, pulsione di vita – il romanzo è la pancia di Lezama, i bambini che sono diventati cartaginesi: «Mi appassionavano i percorsi di quella formichina, ridotta a dimensioni inverosimili, lungo il deserto del palmo della mia mano». Dal romanzo non ci si deve aspettare più che ciò che lascia un ideogramma. Dice Lezama: «Ci ho lavorato così tanto, che non so più se è una qualità o un difetto, forse entrambe le cose, ma come tutto quello che faccio, mi accompagna e mi conforta».

© Álvaro Enrigue, 2017. Tutti i diritti riservati.

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