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La morte ha il permesso, la prefazione di Luca Ricci

Luca Ricci Autori, Ritratti, Scrittura, SUR Lascia un commento

Pubblichiamo oggi la prefazione di Luca Ricci a La morte ha il permesso di Edmundo Valadés. Ringraziamo l’autore per la concessione. Buona lettura!

[Qui un assaggio della raccolta]

di Luca Ricci

Candido ufficialmente Edmundo Valadés a ricoprire l’incarico di santo laico del cuento per il 2017. Chi potrebbe fare meglio di lui, visto che ha praticamente dedicato la vita a imporre all’attenzione del mondo il racconto come genere letterario e non come figlio di un Dio minore rispetto al romanzo? Per farlo mise in piedi una rivista leggendaria in Messico che si chiamava El cuento. Revista de Imaginación, una prima apertura nel 1939 per cinque numeri, e poi dal 1964 fino alla morte. Ma in che cosa consiste il lascito fondamentale di Valadés racchiuso in una raccolta come questa sua prima, La morte ha il permesso, pubblicata per la prima volta nel 1955, una sciabolata che ha spaccato in due il secolo breve come una mela, da una parte i Lugones e i Quiroga, dall’altra i Borges e i Cortázar fino ai Bolaño e i Pauls? Io credo che l’eredità sia eminentemente formale. Secondo Valadés per fare lo scrittore di racconti bisogna eccellere in due cose: non diventare un romanziere; fermarsi un attimo prima che la storia si trasformi in una storiella, cioè in una gag.

Evitare di diventare un romanziere non è facile come potrebbe sembrare. Uno comincia a scrivere un racconto animato dalle migliori intenzioni circa «il tagliare fino al midollo» e debitamente ossessionato dal mantra show, don’t tell e poi, frase dopo frase, si lascia prendere la mano e si ritrova in mezzo a un guazzabuglio che neanche David Foster Wallace.

Ecco come lo scrittore naturalista – benché pentito – (e francese) Gustave Flaubert descrive il cappello del giovane Charles Bovary all’inizio di Madame Bovary e, tra le altre cose, mette in evidenza una peculiarità tipica del romanziere: l’incedere calmo, quasi pachidermico, la mancanza cronica d’impazienza.

Si trattava di uno di quei copricapo del genere misto, dove si riscontrano elementi del cappuccio di pelo, del ciapska, della bombetta, del caschetto di lontra e del berretto di cotone, insomma uno di quei miserabili oggetti che nella loro muta bruttezza hanno la stessa espressione profonda del muso di un imbecille. Ovoidale e tenuto su da stecche di balena, cominciava con tre sanguinacci arrotolati; poi si alternavano, separate da una striscia rossa, delle losanghe di velluto e di pelo di coniglio; poi veniva una specie di sacco che terminava in un poligono cartonato, coperto da un complicato ricamo di galloni da cui pendeva, all’estremità di un lungo e sottilissimo cordone, una crocettina di filo dorato a guisa di nappa. Doveva essere nuovo; la visiera luccicava.

È come se qualsiasi storia potenziale contenesse in sé parecchie variabili narrative (e personaggi secondari e sottotrame e digressioni e colpi di scena) che lo scrittore di racconti, a differenza del romanziere, non deve assolutamente cogliere. Avete presente Ulisse incatenato all’albero della nave per resistere al canto seducente delle sirene? Ecco, lo stesso sforzo viene richiesto allo scrittore di racconti, nel momento in cui deve mettersi a dire ciò che ha da dire operando un taglio netto rispetto all’intero, e sconfinato e soprattutto invitante scibile umano del narrabile.

 

Quanto all’evitare di trasformare un racconto in una gag, anche questa circostanza non è semplice da evitare come potrebbe apparire. Lo scrittore di racconti ha il dono della sintesi al quadrato, visto che l’atto della scrittura di per sé è una grande e raffinata operazione intellettuale di sintesi, cioè in fin dei conti di riduzione. Pensiamo a una parola qualsiasi, la prima che ci viene in mente. Cappello. Nessuno vacilla al cospetto di una parola simile, tutti noi la leggiamo e ci facciamo subito un’idea precisa di cosa significa, di cosa sta a indicare. Eppure un cappello può essere fatto in tanti modi  (e infatti Flaubert, da romanziere, ha scelto di servirsi di molte altre parole per descrivere quello che aveva scelto per Charles Bovary). La cosa in sé è infinitamente più ampia e complessa e sfaccettata del segno che la designa. Insomma, il linguaggio è un naturale strumento di sintesi. E di questa prerogativa lo scrittore di racconti abusa fino all’inverosimile, talvolta fino alla dissoluzione stessa del racconto causa strangolamento delle sue componenti strutturali minime. Proprio così. Lo scrittore di racconti è un tipaccio che, oltre a raccontare una storia, si diverte un sacco a fare dei giochetti d’equilibrismo, tipo camminare sul filo tra ciò che è narrabile e ciò che non lo è. Più precisamente, impazzisce per domande del tipo: «Quanta roba potrei togliere dalla mia storia senza che si trasformi in qualcos’altro, senza cioè che debba smettere di chiamarla narrazione?»

Ecco un tentativo dello scrittore surrealista (e russo) Daniil Charms, tratto dai Casi, in cui tra le altre cose si demolisce il concetto narratologico di personaggio.

C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire.
Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva addirittura né braccia né gambe.
Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando. Meglio allora non parlarne più.

Ecco invece una prova dell’intellettuale simbolista (e francese) Félix Fénéon, prelevata dai Romanzi in tre righe, in cui tra le altre cose si elabora un’impeccabile presa per i fondelli della struttura narrativa.

Al ballo di Saint-Symphorien, nell’Isére, la signora Chausson e il suo amante, coadiuvati dai genitori e dagli amici di lei, hanno ucciso a coltellate il signor Chausson.

Sia Charms che Fénéon tendono a esagerare con questa loro ricerca nell’universo delle forme narrative infinitamente piccole – galassie che nessuno ha mai avuto il coraggio di mappare seriamente (altro che le sonde spappolate su Marte!) – e i risultati somigliano a parodie di racconti, o a racconti abortiti che in qualche modo richiamano già lo sketch cinematografico.

Qual è invece la caratteristica principale di un racconto di Valadés? La risposta che mi soddisfa di più potrebbe essere che va dritto al punto. Nel racconto d’apertura che dà il titolo alla raccolta, «La morte ha il permesso», basta qualche pagina per mettere a fuoco il dissidio eterno tra Legge naturale e Legge sociale, dove in un’assemblea un contadino chiede ai governanti il permesso di uccidere un presidente del municipio corrotto e già giustiziato. Un romanzo non potrebbe andare dritto al punto nello stesso modo, sarebbe costretto a mettere in primo piano la storia sociale dei latifondisti messicani e impiegare molte parole per spiegare altre parole, sabotando in parte il dono di sintesi insito naturalmente nei processi linguistici; d’altro canto una gag non avrebbe la stessa eco metafisica, che invoglia a rileggere tutto dal principio, e anzi abolirebbe il percorso tra inizio e fine, ridurrebbe il racconto a una figura puntiforme, incipit ed explicit coinciderebbero.

Nel racconto intitolato «Non come nei sogni» un’iniziazione alla vita nasce dalla contrapposizione tra mondo onirico e mondo reale, attraverso la doppia lente di una storia d’amore – il ragazzino protagonista si dichiara con un biglietto a quella che vorrebbe diventasse la sua fidanzata – e una lite brutale sfocia in un episodio di sangue, mentre «le ragazze se ne stavano al balcone, sorridenti, con sorrisi che erano mistero e spilli». Ecco la lezione di Valadés, il suo lascito. I racconti devono essere verticali, devono sacrificare l’analisi della realtà (per derive successive: il loro impatto sociologico) in favore di una qualunque epifania: allo scrittore di racconti non interessa tanto stabilire la verità, quanto produrre quella speciale tensione che si crea quando la narrazione non si accontenta di sé stessa ma cerca una specie di sfondamento, in genere prodotto appunto da un’accelerazione che può somigliare molto a un’ascensione.

C’è una definizione molto bella di Boris E˙jchenbaum, formalista russo. Secondo lui un romanzo è «una passeggiata per vari luoghi che sottintende una tranquilla via di ritorno», mentre un racconto è «un’ascensione sulla montagna il cui scopo è uno sguardo da un punto elevato». Uno scrittore di racconti agisce proprio così: è un tizio che non ha paura di sacrificare tutto – società, mondo, storia e perfino il suo narcisismo – per offrire al lettore un punto di vista più elevato. E il libro di Edmundo Valadés – questi racconti che tenete tra le mani e finalmente state per leggere – lo dimostra.

 

Le citazioni sono tratte, oltre che da questo volume, da: Gustave Flaubert, Madame Bovary, a cura di Roberto Carifi, Feltrinelli, Milano 1994; -Daniil Charms, Casi, a cura di Rosanna Giaquinta, Adelphi, Milano 1990; Félix Fénéon, Romanzi in tre righe, a cura di Matteo Codignola, Adelphi, Milano 2009.

© Luca Ricci, 2017. Tutti i diritti riservati

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