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Il quesito di fondo

Chloe Caldwell BIGSUR, Scrittura Lascia un commento

«Chi sono io per insegnare a scrivere?» Chloe Caldwell riflette sull’esperienza di insegnare in un corso di scrittura senza avere una laurea. L’articolo è uscito originariamente su LENNY; ringraziamo l’autrice e la testata.

di Chloe Caldwell
traduzione di Michela Piattelli

Ho capito qual è il posto peggiore in assoluto per incontrare per caso l’ex che temi di incontrare per caso: la Penn Station prima di prendere il treno delle 22.45 per tornare a casa, fuori New York, un giorno in cui ti sei alzata alle 6 e non tornerai sotto le coperte prima dell’1.30 di notte. Hai gli occhi stanchi e un brufolo premestruale incazzato che ti sta spuntando sul mento. Ti sei tagliata i capelli quel giorno, e sai come sono i tagli appena fatti – stranamente brutti anche quando sono belli. Compri una bottiglietta troppo costosa di pinot nero Sutter Home in un negozio che si chiama Primo! Il commesso te la versa in un bicchiere di carta della Coca-Cola con ghiaccio, come fa ogni settimana. Dopo aver tenuto due lezioni di scrittura autobiografica al centro di New York, sotto le luci al neon e nell’aria viziata di stanze con la moquette, hai i nervi a pezzi. Vuoi consolarti con il cibo: un felafel bello carico, pretzel morbidi, bagel al mirtillo con crema di formaggio. Barrette di cioccolato alle mandorle. E qualche volta lo fai. Che cazzo, pensi. Mi faccio un culo così. Ormai hai imparato come sciogliere da sola la tensione in modo sano (hai quasi trent’anni, per l’amor di Dio) con proteine e yoga e ACQUA e sonno, ma cavolo, questi funghi a fette vanno giù che è una meraviglia.

Ma qui non voglio parlare di quando ho incontrato per caso il mio ex alla Penn Station. Voglio parlare del fatto che tengo corsi di scrittura autobiografica al centro di Manhattan senza essere andata all’università. Lo scorso autunno avevo un corso alle 10 e un altro alle 19. Ogni lezione durava tre ore.

Il mio rapporto con gli insegnanti è sempre stato teso, e io li detestavo di default. Persino l’insegnante di ginnastica delle medie, durante lo stretching al polpaccio, mi ha buttata fuori. «Chloe, vattene», ha detto. «Dove vuole che vada?», ho chiesto. In presidenza. Avevo parlato troppo durante il riscaldamento.

Ai corsi che tengo al Gotham Writers’ Workshop, sono spesso la più giovane, la meno istruita accademicamente e la meno finanziariamente stabile fra le persone presenti. L’età dei miei studenti spazia tra cinque decenni. Alcuni hanno la laurea specialistica e hanno studiato presso università prestigiose. Alcuni sono dentisti in pensione e critici d’arte sulla settantina. Altri sono ventenni e lavorano alla HBO e da Victoria’s Secret.

Odio insegnare tanto quanto amo insegnare, e amo immensamente insegnare. Ma chi sono io per insegnare a scrivere?

«Chi sono?», dice David Sedaris in «La curva di apprendimento», il suo famigerato saggio sui corsi di scrittura creativa. Uno studente senza peli sulla lingua gli ha fatto la domanda che ho il terrore di sentirmi fare, il quesito che mi pongo tutto il giorno.

«Sono l’unico che per stare in quest’aula viene pagato», proclama lui.

«Come signor Sedaris, vivevo in un costante terrore», scrive.

Nel 2008 ho seguito lo stesso corso di scrittura autobiografica in cui insegno adesso. Mi sono iscritta senza avere un computer e con il senso che tutto mi fosse dovuto. Mi preparavo con grandissima calma – ascoltando M.I.A. sotto la doccia, scegliendo una «mise» dal pavimento puzzolente della stanza che dividevo con un’amica. Non facevo mai previsioni realistiche su quanto ci avrei messo per prendere la linea G fino alla L e poi camminare a passo svelto dalla fermata della Eighth Avenue verso l’Hudson, fino al palazzo dove si teneva il corso. Facevo il mio ingresso, arrogante e maleducata, mentre l’insegnante parlava. Dopo aver mollato rumorosamente la borsa e il quaderno, andavo in bagno. Una volta rientrata, chiedevo una penna alla persona accanto a me. Alzavo la mano e chiedevo all’insegnante qualcosa che aveva già spiegato mentre ero in bagno.

Davo per scontato che l’insegnante fosse ricca, dato che teneva un corso di scrittura autobiografica ed era stata pubblicata in un’antologia chiamata Twentysomething Essays by Twentysomething Writers. Non era ricca. Sembrava una che stava cercando di sembrare qualcuno. Stivali e pochette di finta pelle. La ammiravo profondamente per nessun’altra ragione se non il fatto che insegnava a un corso di scrittura.

Nei giorni in cui insegno cerco di mettermi i vestiti e le scarpe più costosi che possiedo – si fa per dire, perché di vestiti e scarpe costosi non ne ho. Una volta, d’estate, mentre ero al Drybar a farmi la piega, mi sono girata sulla destra e ho visto una delle mie allieve sulla sedia accanto. Merda. Temevo mi prendesse per una persona frivola, o peggio, piena di soldi. L’apparenza è una brutta bestia. Il ruolo della scrittrice squattrinata sono ben felice di interpretarlo agli occhi della gente, ma quello dell’insegnante squattrinata?

Quando avevo 21 anni la mia insegnante ne aveva 29, la stessa età che ho adesso. L’anno scorso è venuta alla festa per l’uscita del mio libro – aveva avuto un bambino e si era sposata. Era difficile trovare tempo per scrivere, mi ha detto.

«Mi ha cambiato la vita», ho cominciato a dire quando mi chiedono della mia formazione di scrittrice, o meglio della mia mancanza di formazione. «Seguire le lezioni di scrittura autobiografica al Gotham mi ha cambiato la vita». Ha cambiato il modo in cui, a posteriori, guardo la storia della mia vita. Ho trovato la mia voce, ho scritto parte del mio primo libro, mi sono innamorata per la prima volta, di una persona del corso e della scrittura.

Quando sono stata assunta per insegnare, la responsabile dei docenti mi ha scritto per email: «Ho dimenticato di chiederti dove sei andata all’università, vorrei aggiungere alla tua biografia dove ti sei laureata».

Panico. Mi avrebbe detto che le dispiaceva, ma che non potevano farmi insegnare scrittura dal momento che non ero andata all’università. Per compensare, ho risposto enfaticamente: «In realtà non ci sono andata – la mia scuola di scrittura è stata il Gotham!»

Durante la mia formazione avevo la casa disseminata di memoir di formazione. Il genere preferito di mia madre erano le storie di vita vissuta, ed è diventato anche il mio. Una volta un mio fidanzato ha detto: «Se è un memoir sul cancro, loro lo hanno letto».

Il rovescio della medaglia è che mio padre non sopporta la maggior parte dei memoir o dei film mumblecore. L’inverno scorso, durante una bufera di neve, io e mio fratello abbiamo guardato dei film con il proiettore di papà. Alla fine di Frances Ha, Tiny Furniture e Happy Christmas lui aveva un’espressione disgustata e ha commentato: «In questo film non fanno altro che prendere decisioni stupide». Io e mio fratello abbiamo alzato gli occhi al cielo e brontolato: «È proprio questo il punto! Così è la vita! È di questo che parla il film!»

La stessa cosa succedeva quando mio padre leggeva i memoir che stavo leggendo io, come The Chronology of Water di Lidia Yuknavitch.

Il suo riassunto è stato: «“Ho fatto una cazzata, poi ne ho fatta un’altra, poi ne ho fatta un’altra ancora”».

«Ammettere di essere una cogliona non ti rende meno cogliona», ha detto.

Ma è proprio così? Non ci sono dei lati positivi nell’autoconsapevolezza e nel fallimento? Nell’umiltà?

Ho letto del dolore dei miei allievi a causa dell’alopecia areata, di molestie, aborti spontanei, aborti volontari, innumerevoli stupri, madri con coltelli da macellaio, tentati suicidi, sorelle morte, operazioni a cuore aperto su neonati, bambini piccoli affetti da leucemia, bambini piccoli vittime di incidenti stradali, padri che se ne vanno di casa, madri che se ne vanno di casa, divorzi, disturbi alimentari invalidanti, paralisi cerebrali e tagli di vene.

Ho letto questi racconti in prima persona sul divano, ai fornelli mentre aspettavo che bollisse il riso, sulla metro F, mentre mi facevo la pedicure, comodamente a letto, con le loro parole che mi si infiltravano nei sogni. A lezione, devo guardare i miei allievi negli occhi e pronunciarmi sulla loro scrittura, e nel farlo, sulla loro vita.

L’editing della mia raccolta di saggi ha coinciso con due corsi di scrittura autobiografica in aula e uno online. La mattina leggevo storie di depressione e ansia e la sera rivedevo le mie. A volte mi sembrava di vivere in un incubo di non-fiction.

«Cliché», scriveva l’editor sul mio manoscritto. «Cliché», scrivevo io sulle pagine dei miei studenti. Mi sono presa più cura di me stessa. Ho speso un sacco di soldi in massaggi. Mi sono buttata nello yoga e ancora di più nel vino.

A prescindere da dove mi trovavo e da cosa stavo facendo, un’ora prima dell’inizio della lezione mi veniva la diarrea. L’ho detto a un’amica, e lei mi ha raccontato che anche David Foster Wallace diceva di avere disturbi intestinali prima di entrare in classe.

Alla fine della lezione, però, sentivo una scarica di adrenalina e la sensazione di avere uno scopo. Da quando avevo 15 anni ho sempre cercato lavori in cui fossi rimpiazzabile. Meno responsabilità avevo e meglio era – così potevo vivere dentro la mia testa e non essere esaurita quando tornavo a casa per scrivere. Insegnare è il primo lavoro di cui effettivamente mi importi qualcosa (forse anche troppo?).

Nella mia vita nessuno fa affidamento su di me. Gli amici e la famiglia, certo, ma persino loro possono funzionare senza di me. Non ho un cane che mi aspetti per mangiare, un capo che mi aspetti in ufficio alle 9 di mattina, un bambino che aspetti che lo vada a prendere al nido. Se faccio una camminata nei boschi o attraverso a piedi il ponte di Brooklyn nessuno sa dove mi trovi né mi aspetta a casa a una certa ora. Con il corso di scrittura, per la prima volta dopo anni, delle persone hanno fatto affidamento su di me, avevano bisogno che mi presentassi, che fossi preparata, che comprendessi le loro storie. Non prendo alla leggera questa esigenza dei miei scrittori di vicende autobiografiche, perché sono una di loro.

Mi sono adeguata alla filosofia del Sono-l’unica-che-per-stare-in-quest’aula-viene-pagata e sono prontissima a usarla in ogni momento; ahimè, i miei studenti sono troppo educati per chiedermi chi sono. Non mi chiedono a quale università sono andata. Non mi chiedono dei miei libri. È al tempo stesso un sollievo e una delusione.

A colazione con un’amica scrittrice, le dico che ho paura di mandare a puttane il rapporto dei miei allievi con la scrittura. A una ho detto che la sua voce narrante era «strafottente» e lei sembrava offesa e ho passato la notte a letto ad angosciarmi. La mia amica ha detto: «Forse sei più buona di me, perché secondo me se una si offende per un commento del genere forse non dovrebbe fare la scrittrice». Non ha tutti i torti. Quando frequentavo il corso di scrittura autobiografica, le signore più grandi aborrivano il mio uso di parole come «cazzo» e «fica» e ci litigavo per questo. A quel tempo non ci tenevo a risultare simpatica quanto ci tengo ora.

La ragazza senza penna adesso è una donna adulta che va in giro con cinque penne in caso qualcuno ne abbia bisogno. Arrivo mezz’ora in anticipo invece che in ritardo. Non me ne vado in bagno quando sono a disagio o annoiata. Ascolto invece di interrompere per sentire il suono della mia voce (il più delle volte). Faccio battute quando ne ho l’occasione. Scoppiamo tutti a ridere. Il senso di cameratismo in classe mi dà più gioia inaspettata di quanta ne provassi da molto tempo a questa parte.

«E se le fosse richiesto soltanto di presentarsi in aula?», mi ha chiesto l’analista una volta che mi lamentavo dei teenager indolenti di un corso che stavo tenendo.

«E se non dovesse insegnargli nulla?»

«E se potesse essere ancora una studentessa e al tempo stesso insegnare?», ha detto.

Ho sempre pensato alla scrittura come a un analogo del Fight Club. Fallo e basta, non parlare della sua magia. Ma adesso è il mio lavoro parlarne, spiegare agli altri come fare qualcosa di cui io stessa non ho idea.

Quando facevo la cameriera, avrei voluto sedermi a un tavolo. Quando versavo da bere a un matrimonio, avrei voluto essere quella che beveva. Quando facevo la commessa, avrei voluto essere una cliente. Questa sensazione è quasi straziante ai corsi di scrittura. Quando gli studenti mi fanno domande sulla trama e mi dicono che sono bloccati perché non riescono a decidere qual è il quesito di fondo su cui impostare i loro memoir, avrei voglia di dirgli: Ma non lo capite? Non ne ho idea! Sono una di voi!

Ma non lo faccio. Rispondo al meglio delle mie capacità. Certi giorni faccio schifo di brutto. Altri giorni ci prendo in pieno. Di solito capita una via di mezzo. Questo, mi dicono, si chiama essere umani.

Sul treno che mi riporta a Hudson, tiro fuori dallo zaino le pagine dei miei allievi, sorseggio il mio vino con ghiaccio, e mi rifugio nella tragica consolazione delle loro storie senza lieto fine. Disegno piccoli cuoricini rossi sopra le frasi che mi piacciono.

© Chloe Caldwell, 2016. Tutti i diritti riservati.

Chloe Caldwell è l’autrice del romanzo breve Women. La sua raccolta di saggi I’ll Tell You in Person uscirà a ottobre per Coffee House ed Emily Books.

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