Società segrete: la poesia di Carlos Montemayor

redazione Poesia, SUR

Proseguendo nel nostro itinerario attraverso alcuni dei più significativi poeti messicani contemporanei e del secolo scorso, dopo Fabio Morabito, José Emilio Pacheco e José Gostoriza, presentiamo oggi Carlos Montemayor, nella traduzione di Stefano Strazzabosco, che è anche l’autore del breve ma pregnante testo introduttivo e della Nota biobibliografica, e che ringraziamo caldamente.

SOCIETÀ SEGRETE

di Stefano Strazzabosco

Ci sono scrittori che, quando parlano del loro piccolo o grande mondo, sembra descrivano il nostro. Hanno vissuto in luoghi lontani, mangiato cibi diversi, nei loro occhi sono passati i fiumi, le case, le montagne di un paesaggio che ci è ignoto. Eppure, in modi sempre nuovi e sorprendenti, ci pare di conoscere, di riconoscere quasi ciò che leggiamo. Testimoni di uno spaesamento che sentiamo legato precisamente al trovarci nel nostro paese, ascoltiamo un estraneo parlare di noi, compiutamente, come se ci frequentasse dai tempi dell’infanzia: come se quella fosse la nostra voce sommersa, tornata improvvisamente udibile. Se ognuno di noi è anche una terra e un tempo, questa voce sembra arrivarci dagli strati geologici più profondi del nostro essere, perforando rocce millenarie, ammassi liquidi e gassosi, bolle di fuoco incandescente e tanti, tantissimi anni di vita diventata minerale, vegetale, animale, umana.

Carlos Montemayor è stato uno di questi scrittori: un poeta che ha vissuto nella sua lingua come un filo d’erba in un prato, una lettera appena nel vasto alfabeto del mondo. La fede in una sorta di solidarietà profonda fra le disiecta membra di tutto ciò che esiste informa le sue poesie, quasi volesse dirci che l’uomo, la natura, il tempo sono varianti di uno stesso codice aperto, manifesto in tutto. C’è un’amicizia, una societas, un sistema di lacci e vincoli che, invece di imprigionarci, ci mette al centro di una trama infinita e brillante, in cui anche noi splendiamo. È un’ardere fatto di sofferenza e perdita, tanto quanto di gioia e d’estasi: perché nella consapevolezza di un legame universale che percorre l’essere da parte a parte, pervadendo la sua essenza, ci si può smarrire. Ma sperare che la voce del vento e del fiume che scorre, delle stelle in cielo e del tempo che è passato sia la nostra stessa voce, nient’altro che il nostro singolare e plurale modo di parlare, pare comunque  bello, talmente bello che vale la pena di ascoltare.

BIOBIBLIOGRAFIA

Carlos Montemayor è nato a Parral, nel nord del Messico, nel 1947, ed è morto prematuramente a Città del Messico nel 2010. È uno degli autori latino-americani più conosciuti e letti anche in Europa: in Italia sono stati pubblicati Guerra nel paradiso, Tropea 1999 (romanzo); La donna serpente, Manni 2003 (romanzo); Chiapas: la rivoluzione indigena, Tropea 1999 (saggio); In un altro tempo io ero qui, Circolo culturale Menocchio – Olmis, Montereale Valcellina 2006 (poesie).

È stato membro dell’Accademia Messicana della Lingua e Corrispondente della Reale Accademia Spagnola, e ha ricevuto numerosi riconoscimenti: fra gli altri, il Premio Internazionale Juan Rulfo, il Xavier Villaurutia e il Premio di narrativa Colima.

Per molti anni si è dedicato allo studio e alla promozione delle letterature messicane nelle diverse lingue indigene, tanto che nel 1997 la “Asociación de Escritores en Lenguas Indígenas de México” lo ha premiato nominandolo Membro Onorario. Il suo lavoro, preziosissimo, ha fruttato più di cinquanta volumi (di poesia, narrativa, teatro, saggistica) in varie lingue indigene, pubblicati grazie al patrocinio dell’Istituto Nazionale Indigenista del Messico e della Fondazione Rockefeller di New York. Parallelamente, ha pubblicato i lavori critici Arte y trama en el cuento indígena (1998), Arte y plegaria en las lenguas indígenas de México (1999) e La literatura actual en las lenguas indígenas de México (2001), oltre a molte altre monografie su singoli aspetti della culture tradizionali del Messico e dei suoi popoli autoctoni. Il suo saggio Los pueblos indios de México (2001), insieme alle antologie La voz profunda. Antología de la literatura mexicana en lenguas indígenas (2004) e Palabras de los seres verdaderos (2005-6) sono strumenti indispensabili per capire qualcosa del cosiddetto Messico profondo, ovvero di quella vasta parte del Messico di oggi che vive utilizzando le molte lingue indigene, sotto la cappa storica dello spagnolo: ma, specie le antologie, rivelano anche una ricchezza poetica e culturale di cui in Italia non si sa quasi nulla.

Tra gli altri libri di Carlos Montemayor segnaliamo: Los cuentos gnósticos de M. O. Mortenay (1985); il saggio Rehacer la historia (2000); le traduzioni dei Carmina Burana, di Saffo, della poesia portoghese.

Le presenti traduzioni si basano sulla raccolta Poesía 1977-1994 (1997), e comprendono anche due poesie inedite che l’Autore ha attribuito fittiziamente al poeta cinese Tsin Pau, un personaggio già comparso nel suo primo libro di racconti Las llaves de Urgell (1970). Le traduzioni e i testi che accompagnano le poesie sono già state pubblicate nella raccolta In un altro tempo io ero qui, cit., insieme a contributi di Tito Maniacco, Pierluigi Cappello, Roberto Micheli (dipinti), Danilo De Marco (fotografie).

 

CARLOS MONTEMAYOR
PICCOLA ANTOLOGIA POETICA (1977 – 2004)

È pomeriggio.
Passa un uccello cieco.
Il vento brucia
e la sua umida purezza incendia le finestre.
Siamo le strade del pomeriggio
in cui la pioggia avanza,
baciati dalle ali della terra eterna.
Chiudi gli occhi un istante.
Ascolta la pioggia.
Ascolta il vento.
Ascolta il sangue nelle vene.
Nessuno ricorda ciò ch’è stato.
Nessuno perde ciò ch’è stato.
Siamo mani che curano e feriscono,
là dove nasce il sangue
e dove sbocca, e brucia.
Io sono il vento che conosce
il profumato respiro della morte,
il respirare che si stanca coi miei passi.
Sono la voce che oggi piove sulla mia.
Questa maschile e femminile intelligenza che piove.
Le linee delle mie mani che oggi s’inumidiscono.
Una tormenta ubriaca baciata dal vento
e abbandonata al suo passare, freschezza sminuzzata.
L’angoscia della pioggia perché il vento l’attraversa:
la cecità serena della luce
nella tesa cecità del cielo.
Sono mio figlio, sono il mio lignaggio, i miei nonni.
La stessa pioggia d’amore che straziò i miei nonni.
Sono il mio secondogenito, un piovere muto,
una parola che non ho mai scritto e mi piove nell’anima.
Sono Nicandro, il vigile del mio quartiere,
che inebriato parlava con me della sua vita.
Sono il foglio che impregna la scrittura.
Una memoria eccitata che piove.
Sono questo rumore della pelle
che sente il vuoto dell’altra,
questo sudore che piove e si assorda
dentro alla carne in fiamme, disperata
quando il seme s’illumina
e lo spasmo ci strugge
quasi una luce atroce,
un raggio incontrollabile ferisse una stella.
Sono il grido che nessuno ascolta nella bufera.
Vento che passa, che si esalta,
in cui l’effimero e l’eterno
sono pupilla e retina,
una bufera che si abbatte e assorda se medesima,
un uomo stesso, un istante solo,
una memoria che non sente più la pioggia o il fuoco,
ma che è più forte del silenzio
e piove poderosa sulla morte.

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Io sono stato molti.
Altri coi miei occhi guardano
quello che adesso la mia mano scrive.
Per mesi ed anni l’hanno fatto altri.
Questi è il vento.
Hanno voluto tutti il loro.
Hanno cercato, amato, rifiutato.
Ognuno ha amato la donna
che era da sempre destinata a lui
e ognuno di loro l’ha perduta.
Io sono il testimone che li guarda.
Questi è il vento.
Io sono quello che non ho vissuto
e non vivrò.
Però io sono ciò che vivo ad ogni istante.
M’immergo al centro di una luce
che gira in molte direzioni.
Sono chi esce dalla casa
e chi rimane dentro.
Sono chi c’è, chi è.

ELEGIA DI TLATELOLCO, VI[1]

Tutto è rimasto in questa piazza
il nostro amore nelle pietre un’altra notte abbattuta
il silenzio veglia come una bara una madre e un uomo
in mezzo agli stivali e agli sputi delle scorte

e la vita si sporca
nascosta nei palazzi
con l’affannoso tozzo
che ci resta dell’amico incapace di fuggire
 
Tutto è rimasto in questa piazza
la pietra immemore del sacrificio
sacerdoti che dimenticarono la purezza
e ciecamente ci cercano il cuore:
sacrificato senz’astuzia
spontaneo e attratto dal piacere antico della guerra fiorita[2]
adesso ha conosciuto l’inganno
il fiore del sospetto nascerà
 
Tutto è rimasto in questa piazza
tante pietre che feriscono l’aria
tanta pietra che ha udito il molteplice rantolo
di ragazzi rimasto nella gola
(la luce precipitata nel cielo mi scopre
e l’affetto del giorno giunge al dolore attraverso lo sguardo
impossibile dimenticare
impossibile morire)
 

ARTE POETICA, 1

Quando mio figlio mangia della frutta o beve dell’acqua o si lava in un fiume,
dice solo che mangia della frutta
e beve dell’acqua o si lava nel fiume.
Per questo ride quando leggo le mie poesie.
Ancora non capisce tante parole,
ancora non capisce che le parole non sono le cose,
che in una poesia voglio dire ciò che ci supera ad ogni passo;
l’ira per gli stipendi le case prestate e gli abiti che invecchiano;
la speranza fra debiti e strade spartite con giorni monotoni
e mattine la cui unica dolcezza è l’acqua che ci lava;
l’onore fra impieghi part-time e amici senza onore;
la rapina nei giornali e negli uffici pubblici;
la vita che ci apre le braccia per prendere
da una parte la notte delle piogge
e dall’altra i giorni di sventura.
Ma una volta, mangiando un caco del mio paese,
disse, senza accorgersi,
che sapeva di qualcosa fra la pesca e la prugna.
Siccome ignorava quel frutto,
non disse cosa era, ma disse come era.
Ancora non capisce che è così ch’io parlo,
che cerco di capire ciò che ignoro,
e poi cerco di dirlo, nonostante tutto.
Come se ignorare fosse anch’esso un modo di capire.
Come se sempre ricordassi
che la vita non è una frase e non è un nome
né un verso che tutti capiscono.
È, a mio modo, come se dicessi
che bevo dell’acqua o mangio un frutto
o che mi lavo in un fiume.
 

ARTE POETICA, 2

A quest’ora, in montagna, non si ascolta nulla.
Anche il vento è cessato.
Soltanto il sole, forse, conserva dolcemente la sua voce,
una parola che non vuol stupire,
costante, senza fretta, che è la stessa
nelle pietre, negli alberi o nelle colline.
Il giorno brilla intorno a quella parola.
E la pietra su cui siedo rimane orgogliosa e in silenzio:
non vuole parlare o persuadere.
Voglio che la parola sia la stessa in me,
voglio ascoltarla senza argomenti,
con la stessa certezza con cui la pietra si scalda
o gli alberi trafitti lasciano cadere la loro ombra
come l’eco della parola,
come l’ombra che siamo,
l’eco attraverso cui, con calma, luminosa, ci nomina.
 

MEMORIA

Io sono qui, a casa mia, da solo.
E qui ci sono i mobili, l’aria, i rumori.
Ho un sentimento trasparente come
il vetro di questa finestra.
È come la finestra da cui guardavo la neve all’alba,
molti anni fa, quando ero piccolo,
e schiacciavo la faccia contro il vetro
e capivo la vita.
È un desiderio in quiete, come il pomeriggio.
È stare come sta ogni cosa.
Avere il mio posto come tutto in questa casa.
Durare il tempo che si dura, come le cose.
Non essere di più né meglio di loro.
Soltanto essere, in mezzo alla mia vita,
una parte del silenzio d’ogni cosa.

INEDITI: DUE POESIE DI TSIN PAU

L’ATTESA

Volano le oche selvatiche
sui boschi del villaggio.
Fuggono l’inverno.
All’alba i loro profili bianchi e grigi
s’allontanano dal letto del fiume,
più in là delle montagne.
Fuggono l’inverno anche
le foglie degli alberi nel bosco,
l’erba verde, l’alta cortina di gramigna sulla riva.
Non fuggono nel cielo, come le oche selvatiche.
Fuggono per terra, cadono, inciampano,
appassiscono a terra, si dimenticano,
aspettano già morte il momento del verde.
Come gli uomini, come gli anziani, come Lin Tsao,
il bimbo morto ieri.

HUNG HUAN, IL VITTORIOSO

Hung Huan è stato in guerra.
Il generale lo ha colmato di onori.
Ha già ripulito il duro filo della sua spada
dal sangue di molti combattenti.
I nemici erano feroci e perversi.
Difendevano le loro case, i figli, le donne, i villaggi.
Hung Huan non voleva bruciare case né uccidere figli
né violentare donne né distruggere villaggi.
Perché infierire?
Ma sotto la sua spada sono caduti in molti
che già nell’agonia lo maledivano.
Adesso è un vincitore.
Il fuoco lo ha toccato ed è un eroe.
Hung Huan ritorna dalla guerra.
Ritorna con un altro cavallo più brioso e giovane.
Adesso ha più uomini sotto il suo comando.
Il fuoco l’ha ferito e qualcosa gli sfugge.
Forse lo sguardo di quel bimbo abbracciato
al corpo morto e mutilato di suo padre.
Hung Huan ritorna.
Vuole sorridere.
“La guerra è finita”, si dice.
Ma nel suo cuore, come l’erba
secca per terra, cresce il silenzio.

Montemayor – Testi in spagnolo

Es tarde.
Pasa un ave ciega.
El viento arde
y su húmieda pureza incendia las ventanas.
Somos las calles de la tarde
en que la lluvia avanza,
a quien las alas de la tierra perdurable besaron.
Cierra por un instante los párpados.
Escucha la lluvia.
Escucha el viento.
Escucha la sangre en las venas.
Nadie recuerda lo que fue.
Nadie pierde lo que fue.
Somos manos que sanan y lastiman,
donde nace la sangre
y se derrama, ardiendo.
Soy el viento que conoce
el perfumado aliento de la muerte,
la respiración que se cansa con mis pasos.
Soy la voz que sobre mi voz hoy llueve.
La masculina y femenina inteligencia que llueve.
Las Iíneas de mis manos que hoy se humedecen.
Tormenta que el viento besa para embriagarla
y dejarla a su paso, deshilando su frescura.
La angustia de la lluvia porque el viento la atraviesa:
la ceguera serena de la luz
en una tensa ceguera del cielo.
Soy mi hijo, soy mi linaje, mis abuelos.
La misma lluvia de amor que despedazó a mis abuelos.
Soy mi segundo hijo, una lluvia en silencio,
una palabra que nunca he escrito y llueve sobre mi alma.
Soy Nicandro, el velador de mi barrio,
Que embriagado platicaba de su vida conmigo.
Soy la hoja que empapa la escritura.
Una memoria excitada que llueve.
Soy este rumor de la piel
que siente el vacío de la otra piel,
este sudor que llueve y se ensordece
en la carne en llamas, desesperada
cuando el semen se ilumina
y el espasmo nos destruye
como si una luz atroz,
un rayo intratable, hiriese a una estrella.
Soy el grito que nadie escucha en la tormenta.
Viento que pasa, que se exalta,
donde lo efímero y lo eterno
son una pupila y una retina,
una tormenta que cae y se ensordece a sí misma,
un hombre mismo, un instante solo,
una memoria que no siente la lluvia ni el fuego,
no, pero que es más poderosa que el silencio
y que llueve poderosa sobre la muerte.

Muchos hombres he sido.
Otros con mis ojos miran
lo que ahora mi mano escribe.
Durante meses y años otros lo hicieron.
Éste es el viento.
Desearon todos lo suyo.
Buscaron, amaron, rechazaron.
Cada uno amó a la mujer
que desde siempre se destinó para él
y cada uno la ha perdido.
Soy el testigo que los mira.
Éste es el viento.
Soy lo que no he vivido
y lo que no he de vivir.
Pero soy lo que en cada momento vivo.
Me sumerjo en el centro de una luz
que gira en muchas direcciones.
Soy el qua sale de la casa
y permanece dentro.
El que está, el que es.
 
Elegía de Tlatelolco
 
Todo quedó en esta plaza
nuestro amor en las piedras otra noche derrumbada
el silencio vela como ataúd madre y hombre
entre las botas y escupitajos de las escoltas
 
y la vida se ensucia
escondida en los edificios
con el afanoso mendrugo
que nos queda del amigo que no alcanzó a huir
 
Todo quedó en esta plaza
la piedra inmemorial del sacrificio
sacerdotes que olvidaron la pureza
y ciegamente buscan nuestro corazón:
sacrificado sin astucia
espontáneo y atraído por el placer antiguo de la guerra florida
ahora conoció el engaño
germinará la flor de la desconfianza
 
Todo quedó en esta plaza
tantas piedras lastimando el aire
tanta piedra que oyó el múltiple estertor
de muchachos y quedó en su raíz
la amargura y la dulzura de este silencio
(la luz precipitada en el cielo me descubre
y el afecto del día llega al dolor a través de la mirada
imposible olvidar
imposible quedarse muerto)
 

Arte poética, 1

Cuando mi hijo come fruta o bebe agua o se baña en un río,
sólo dice que come fruta
o bebe agua o que se baña en el río.
Por eso ríe cuando leo mis poemas.
No comprende aún tantas palabras,
no comprende aún que las palabras no son las cosas,
que en un poema quiero decir lo que nos rebasa a cada paso;
la ira entre quincenas y casas prestadas y ropas que envejecen;
la esperanza entre deudas y calles compartidas con días monótonos
y con mañanas cuya única dulzura es el agua que nos baña;
la honra entre empleos temporales y amigos deshonrados;
la rapiña entre diarios y oficinas públicas;
la vida que nos abre los brazos para tomar
a un lado la noche de las lluvias
y en otro los días de las desdichas.
Mas cierta vez, comiendo un persimonio de mi pueblo,
dijo, sin darse cuenta,
que sabía como a durazno y ciruela.
Porque desconocía esa fruta,
no dijo lo que era, sino cómo era.
No comprende aún que así hablo yo,
que trato de comprender lo que desconozco,
y que intento decirlo, a pesar de todo.
Como si ignorar fuese también una forma de comprender.
Como si siempre recordara
que la vida no es una frase ni un nombre
ni un verso que todos entienden.
Es, a mi modo, como decir
que bebo agua o como una fruta
o que me baño en un río.

Arte poética, 2

A esta hora, en el monte, nada se escucha.
El viento incluso ha cesado.
Quizás sólo el sol mantiene suavemente su voz,
con una palabra que no se propone asombrar,
permanente, sin prisa, que es la misma
en las piedras, los árboles o las colinas.
Brilla el día alrededor de esa palabra.
Y la piedra en que estoy santado permanece orgullosa en su silencio:
tampoco quiere hablar o pesuadir.
Quiero que la palabra sea en mí la misma,
escucharla sin argumentos,
con la misma certeza con que la piedra se calienta
o los árboles al ser traspasados dejan caer su sombra
como el eco de la palabra,
como la sombra que somos,
el eco a través del cual, quieta, luminosa, nos nombra.

Memoria

Estoy aquí, en la casa, a solas.
Aquí están los muebles, el aire, los ruidos.
Tengo un sentimiento tan transparente
como el vidrio de una ventana.
Es como la ventana en que miraba la nieve al amanecer,
hace muchos años, cuando era niño,
y pegaba la cara contra el cristal
y comprendía toda la vida.
Es un deseo en calma, como la tarde.
Es estar como están todas las costas.
Tener mi sitio como todo lo que está en la casa.
Perdurar el tiempo que sea, como las cosas.
No ser más ni mejor que ellas.
Sólo ser, en medio de mi vida,
parte del silencio de todas las cosas.
 

LA ESPERA

Vuelan los gansos salvajes
por los bosques de la aldea.
Huyen del invierno.
Al amanecer sus siluetas blancas y grises
se alejan de los caudales del río,
más allá de las montañas.
También huyen del invierno
las hojas de los árboles en el bosque,
la verde hierba, la erguida falda de maleza en la ribera.
No huyen por el cielo, como los gansos salvajes.
Huyen por la tierra, se caen, se tropiezan,
se secan en la tierra, se olvidan,
esperan ya muertas la hora de ser verdes.
Como los hombres, como los ancianos, como Lin Tsao,
el niño que murió ayer.

HUNG HUAN, EL VICTORIOSO

Hung Huan estuvo en la guerra.
El general lo colmó de honores.
Ha limpiado ya en la dura hoja de su espada
la sangre de numerosos combatientes.
Los enemigos eran feroces y perversos.
Defendían sus casas, sus hijos, sus mujeres, sus aldeas.
Hung Huan no quería quemar casas ni matar hijos
ni violar a mujeres ni destruir aldeas.
¿Para qué ensañarse?
Pero bajo su espada cayeron muchos
que aún agonizantes lo maldecían.
Ya es vencedor.
El fuego lo ha tocado y es héroe.
Hung Huan regresa de la guerra.
Regresa con otro caballo brioso y joven.
Ahora tiene más hombres bajo su mando.
El fuego lo ha herido y algo no entiende.
Quizás la mirada de aquel niño abrazando
el cadáver del padre ya mutilado.
Hung Huan regresa.
Quiere sonreír.
“La guerra ha acabado”, se dice.
Pero en su corazón, como la hierba
seca en la tierra, crece el silencio.


[1] Elegia di Tlatelolco, VI: si tratta della VI e ultima parte di una sequenza dedicata alla strage di Tlatelolco (o Piazza delle Tre Culture), avvenuta a Città del Messico il 2 ottobre 1968, quando reparti armati militari e paramilitari trucidarono centinaia di civili inermi riuniti pacificamente nella piazza di Tlatelolco, durante un’assemblea studentesca, pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi. La strage è a tutt’oggi ancora impunita.

[2] guerra fiorita: presso i popoli preispanici, e soprattutto gli aztechi, le guerre fiorite (“guerras floridas”) servivano a catturare prigionieri da sacrificare in seguito agli dèi, come parte di un rituale volto alla conservazione dell’ordine dell’universo ed al suo rinnovamento.

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