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Testo a fronte: Leopoldo Brizuela

Chiara Tana Scrittura, SUR, Traduzione

Il Testo a fronte di oggi è dedicato allo scrittore argentino Leopoldo Brizuela, con un estratto da Una stessa notte (Ponte alle Grazie), nella traduzione di Chiara Tana.

Una misma noche
di Leopoldo Brizuela

1976

La ciudad es cuadrada. Las calles la dividen, con precisión de grilla, en manzanas cuadradas, idénticas, numéricas. Quien la sobrevolara, esta noche que quiero enfocar —un helicóptero de la policía, un guerrillero que ha conseguido escapar y vuela al exilio—, creería descubrir la verdadera función de esa cuadrícula: una jaula, un plano de operaciones.

Ha dicho el jefe de policía: “Señor, para mí sólo pido lo más duro en el combate”. Dijo el gobernador: “Primero los subversivos, después sus cómplices y por último los indiferentes. Todos serán eliminados”.

 

La cuadra en que transcurre esta historia está poco más allá del límite: ahí donde la mente del que planeó La Plata dejó en blanco el papel. Apenas más allá de una larga avenida que rodea la ciudad, la Circunvalación, con anchas ramblas en medio.

 

Veamos la cuadra de la que hablo: cinco casas apenas, o cuatro en realidad —la esquina en que yo vi al tipo de gorrita, Calle 18 número 3, es un playón de autos usados o robados, y no contará aquí.

La vereda de enfrente es mucho más pequeña. Una manzana triangular o, mejor dicho, una esquina de manzana amputada por el inicio del camino a Buenos Aires. Como una cuña clavada en la cuadrícula, o una proa.

 

Una única casa ocupa esa manzana, cuya única puerta da al frente de la mía y de la casa vecina —las restantes enfrentan al camino a Buenos Aires, por entonces, mucho más importante.

Un tránsito constante de autos, de micros, de camiones que entran o huyen de la ciudad, un temblor intermitente, recuerda los tiempos en que esto era un bañado, pampa bárbara.

 

¿Guerra contra la subversión? ¿Represión? ¿Genocidio? Mi memoria —la memoria del chico de doce años que era entonces— va iluminando hechos más bien como un paisaje. Fragmentos de un mosaico; piezas de un puzzle sangriento que alguien o algo arma, silencioso, en la noche.

Calle 532 entre 13 y 14: una noche arrasan la casa de un marino de ypf, compañero de mi padre.

No roban: lo destrozan todo. La ausencia de motivos, la incapacidad de imaginarlos, instalan el relato, desde el principio, en rango de sagrado. “Entraron”, dicen los vecinos, en voz baja, como los acólitos de una religión prohibida, de una secta secreta en la que es mejor no decir nombres.

Hay mudanzas furtivas, sigilosas: primos que piden albergue y que se quedan meses, casi sin salir, estudiando en grupo en la planta alta, para partir de golpe cuando el chico de enfrente, el hijo del marino, me pregunta por qué vienen a casa “esos muchachos”, y una hora después un balazo horada, como sin querer, una ventana.

Calle 532 entre 17 y 18. Un estallido en la noche nos incorpora en la cama, a mi madre y a mí: una bomba ha volado entera la casa de un vecino. Los dueños estaban fuera pero igual ya no vuelven. Durante días los chicos hurgamos el impudor de las ruinas, la obscena tentación de los bienes del prófugo.

Hay tiroteos nocturnos, a lo lejos, como un basso continuo. Y hasta balas que silban, de pronto, en la ventana, a la hora de la cena. Una tía del campo se escandaliza. Mi madre, en cambio, apenas si deja de comer para pedirnos que la ayudemos a correr la mesa a un lugar más protegido, subir el volumen del televisor y seguir comiendo: “Mañana lo sabremos por el diario El Día”, dice: cuántos policías asesinados, cuántos subversivos abatidos.

Calle 17 y 532. Una embarazada aparece acribillada y queda allí tendida, casi veinticuatro horas, entorpeciendo el tránsito, rodeada de soldados que cuidan el espectáculo a modo de advertencia.

 

Una stessa notte
traduzione di Chiara Tana

1976

La città è quadrata. Le strade la dividono, con la precisione di una griglia, in isolati quadrati, identici, numerici. Se qualcuno l’avesse sorvolata, in quella notte che voglio mettere a fuoco – un elicottero della polizia, un guerrigliero riuscito a scappare che vola verso l’esilio –, avrebbe creduto di scoprire la vera funzione di quel reticolato: una gabbia, un piano operativo.

Ha detto il capo della polizia: «Signore, chiedo per me solo la parte più dura del combattimento». Il governatore ha detto: «Prima i sovversivi, poi i loro complici e da ultimo gli indifferenti. Tutti saranno eliminati».

 

L’isolato in cui si svolge questa storia si trova poco oltre il limite: là, dove la mente di colui che progettò La Plata aveva lasciato il foglio in bianco. Appena oltre una lunga strada che circonda la città, la Circunvalación, con larghi viali al centro.

 

Vediamo l’isolato a cui mi riferisco: cinque case appena, o quattro, in realtà – l’incrocio dove ho visto il tipo con il cappellino, Calle 18 numero 3, è un parcheggio di auto usate o rubate, e qui non verrà considerato.

Il marciapiede di fronte è molto più corto. Un isolato triangolare, o meglio, un angolo di isolato amputato dall’inizio della strada che conduce a Buenos Aires. Come un cuneo piantato nel reticolato, o una prua.

 

Un’unica abitazione occupa questo isolato, la cui unica porta si affaccia sul davanti della mia casa e di quella accanto – tutte le altre danno sulla strada per Buenos Aires, in quegli anni molto più importante.

Un traffico costante di automobili, di autobus, di camion che entrano in città o fuggono da essa, un tremolio intermittente, ricorda i tempi in cui tutto questo era palude, pampa selvaggia.

 

Guerra alla sovversione? Repressione? Genocidio? La mia memoria – la memoria del ragazzino di dodici anni che ero allora – va illuminando fatti, come elementi di un paesaggio. Frammenti di un mosaico; pezzi di un puzzle di sangue che qualcuno o qualcosa mette assieme, in silenzio, nella notte.

Calle 532, tra la 13 e la 14: una notte devastano la casa di un marinaio della YPF, compagno di studi di mio padre. Non rubano nulla: sfasciano ogni cosa. La mancanza di motivi, l’impossibilità di immaginarne uno, sin dall’inizio, situano il racconto nella sfera del sacro. «Sono entrati», dicono i vicini, a bassa voce come gli accoliti di una religione proibita, una setta segreta nella quale è meglio non fare nomi.

Ci sono traslochi furtivi, in segreto: cugini che chiedono ospitalità e restano mesi, senza uscire, studiando in gruppo al piano superiore, per poi partire di colpo quando il ragazzino di fronte, il figlio del marinaio, mi chiede perché «quei giovani» vengono a casa da me, e un’ora dopo un proiettile perfora, come per caso, una finestra.

Calle 532, tra la 17 e la 18. Uno scoppio nella notte ci fa drizzare sul letto, me e mia madre: una bomba ha fatto esplodere l’intera casa di un vicino. I proprietari erano fuori, comunque non tornano più. Per giorni noi ragazzini frughiamo nell’impudicizia delle rovine, l’oscena tentazione dei beni del profugo.

Ci sono sparatorie notturne, in lontananza, come un basso continuo. E persino proiettili che fischiano all’improvviso alla finestra, all’ora di cena. Una zia che vive in campagna è scandalizzata. Mia madre, invece, smette di mangiare solo per chiederci di aiutarla a spostare il tavolo in un punto più protetto, alzare il volume del televisore e continuare a mangiare: «Domani lo leggeremo su El Día», dice: quanti poliziotti assassinati quanti sovversivi abbattuti.

Calle 17, angolo con la 532. Una donna incinta viene crivellata a colpi di mitraglia e resta lì, distesa, quasi ventiquattro ore, intralciando la circolazione, circondata da soldati che vigilano sullo spettacolo a mo’ di avvertimento.

 

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