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Uccelli, mosche, pensieri… tutte cose che possiamo sentire muoversi disordinatamente all’interno della nostra testa

Will Noah Autori, SUR

Pubblichiamo oggi un interessante approfondimento su Antonio di Benedetto. L’articolo, pubblicato in origine da Public Books, viene qui riprodotto per gentile concessione della rivista. 

di Will Noah
traduzione di Elena Longo

Zama, romanzo surreale di Antonio Di Benedetto, che rifugge ogni tentativo di categorizzazione, è stato tradotto per la prima volta in inglese lo scorso anno, ponendo fine alla lunga attesa degli appassionati della letteratura latinoamericana. La casa editrice statunitense Archipelago Books pubblica ora Nest in the Bones [dal racconto «Nido en los huesos», ancora inedito in Italia, ndt], una raccolta dei racconti dell’autore argentino che dimostra nella forma breve altrettanta bravura, esibendo una gamma di emozioni e sperimentazioni a cui Zama poteva solo accennare, essendo limitato dal punto di vista di un unico narratore concentrato su sé stesso. La raccolta ripercorre tutta la carriera di Di Benedetto e riflette la biografia dello scrittore argentino molto più del suo capolavoro. La traduttrice americana dell’opera, Martina Broner, presenta i racconti in una sequenza che traccia lo sviluppo di una serie di immagini – in particolare quelle in cui gli animali appaiono in quanto parte complementare dell’esperienza umana – che segue l’evoluzione di una vita da scrittore condotta ai margini di un lavoro di provincia, amplificata dai viaggi e sconvolta dalla persecuzione e dall’esilio.

Quando Zama è stato pubblicato in Argentina, nel 1956, Di Benedetto faceva il giornalista e viveva a Mendoza, una regione famosa per il vino pregiato ma non per il fermento letterario, che invece si concentrava a Buenos Aires. Il suo libro attirò quindi poche attenzioni sul momento, ma nei decenni successivi l’opera di Di Benedetto è lentamente uscita dall’ombra ed è diventata quasi una leggenda di culto, grazie soprattutto ad alcuni ammiratori appassionati come gli scrittori argentini Juan José Saer e Sergio Chejfec e al cileno Roberto Bolaño. Antonio Di Benedetto morì nel 1986, troppo presto per avvertire l’impatto che aveva avuto su un’intera generazione di scrittori. Quando Chejfec lo incontrò, poco prima della sua morte, l’ammirazione che provava nei suoi confronti fu subito smontata: «Sei giovane, ecco perché credi che il mio lavoro sia buono», gli disse Di Benedetto, «sono destinato al nulla».

Forse queste parole amare erano dettate dalle frustrazioni, dai rifiuti e dalle torture fisiche che Di Benedetto aveva subito ad opera del suo paese (dieci anni prima era stato incarcerato dal regime militare di Jorge Videla e una volta rilasciato passò il resto della sua vita in esilio), ma rivelano anche un atteggiamento di indifferenza, o perfino di ostilità, che l’autore argentino ha mantenuto a lungo, perché non gli interessava essere compreso dal suo tempo. «Scrivo perché sento il bisogno di scrivere, di tirar fuori quello che ho in testa», dice Manuel Fernández, uno dei personaggi secondari più importanti di Zama. «Conserverò le mie carte in una cassetta d’ottone. I nipoti dei miei nipoti le disseppelliranno. Allora sarà tutto diverso».

Questo alter ego letterario dell’autore condivide con Di Benedetto anche una passione per le metafore a tema animale: «La disposizione a scrivere non è un seme che germini a tempo fisso. È un animaletto che sta nella sua tana e procrea quando gli viene, perché la sua epoca è variabile, e a volte è cane, altre furetto, ora pantera e ora coniglio». Queste turbolente mascotte dell’immaginazione spuntano in molte delle storie raccolte in Nest in the Bones e servono da catalizzatore per le riflessioni di Di Benedetto sulla fantasia, la paura e la gentilezza. A partire dalla sua prima raccolta, Mundo animal, fino ai racconti scritti negli anni di prigionia e dopo la scarcerazione, la vita animale è una costante del lavoro dell’autore argentino e rappresenta sia i trionfi che le paure dell’esperienza umana. Spesso Di Benedetto si concentra sull’interazione uomo-animale in modo da riportare gli esseri umani all’interno del contesto naturale, smussando ambizioni e presunzioni per mostrare più chiaramente l’esistenza umana all’interno del flusso della realtà.

Gli animali hanno un ruolo simbolico anche in Zama, ma il loro significato viene filtrato dal punto di vista ridotto del narratore Don Diego de Zama, un servo testardo e orgoglioso della corona spagnola. Zama è ambientato in America Latina nel diciottesimo secolo ed è in un luogo remoto di questa regione che Don Diego passa dieci anni, aspettando con ansia di essere trasferito ad Asunción, dove potrà ritrovare la sua famiglia e avvicinarsi al centro del potere imperiale. La voce tristemente arrogante di Zama domina il romanzo, oscillando tra amor proprio e autocommiserazione. Manuel Fernández è uno dei pochi personaggi secondari che restano impressi, poiché fende la nebbia delle ambizioni e delle sensazioni del protagonista con una generosità fuori dal comune che è più facile incontrare nei racconti di Di Benedetto. La maggior parte del tempo siamo costretti a seguire Zama e restiamo impantanati al suo fianco in uno stato di espera, tradotto da Esther Allen in inglese come expectation piuttosto del più comune waiting o dell’idea più ottimistica che si cela dietro alla parola hope [rispettivamente «attesa fiduciosa», «attesa» e «speranza» nell’edizione italiana, ndt]. La scena iniziale del romanzo vede Don Diego in riva al fiume mentre aspetta un bastimento e nel frattempo osserva la carcassa di una scimmia che vortica nell’acqua, intrappolata tra i pali del molo. La funzione dell’animale è senza dubbio metaforica, se non evocativa: la condizione della bestia morta illustra quella dell’uomo che la sta guardando, perché è così che Zama la vede. «Eravamo lì», pensa, «tra andar via e rimanere».

Il racconto che dà il titolo a Nest in the Bones comincia con un paragone tra uomo e scimmia ancora più inusuale e vivace: «Non sono la scimmia. Le mie idee sono diverse, anche se, almeno all’inizio, ci hanno messi nella stessa situazione». Andando avanti con il racconto scopriamo che questa scimmia ha tentato timidamente di entrare a far parte della famiglia umana del narratore, ma alla fine ha fallito. Mentre l’«idea» della scimmia è quella di inserirsi nella società umana, il narratore vuole entrare a far parte dell’ecosistema animale: decide di trasformare la sua testa in una casa per uno stormo di uccelli. All’inizio, è «felice di poter fornire loro un nido stabile, sicuro e caldo» ed esulta all’idea di essere «un dio musicale, tangibile e mortale». Non passa troppo tempo, però, prima che il nido venga invaso da avvoltoi che «mangiano il mio cervello fino all’ultima briciola». Il narratore ci lascia con una richiesta: «Ma, vi prego, nessuno si lasci sopraffare dall’orrore nell’apprendere la mia storia, bensì lo superi. E non desista nell’impresa se ha anche solo la minima intenzione positiva di popolare la propria testa di uccelli». Di Benedetto prende piuttosto seriamente le conseguenze etiche di questo bizzarro scenario. L’eroe dal cervello-uccello del racconto si distingue da Don Diego perché affronta i sacrifici con zelo ed è altruista nel piegare il suo corpo di fronte alle volontà della natura.

Se il protagonista di Zama sembra considerare gli animali degli esseri inferiori, le altre creazioni della mente di Di Benedetto si muovono molto più liberamente all’interno dello spettro dell’esperienza umana e animale cancellando le gerarchie che governano le specie. In uno dei racconti, il narratore contempla un cane che gli appare in sogno e vorrebbe invitarlo nelle sue ore di veglia in modo da avere «nella mia vita infelice e senza sole, anche se sotto il sole, un sogno». Propone al cane di seguirlo e questo considera l’offerta ma gli risponde suggerendogli un’alternativa: che sia piuttosto il narratore a fermarsi nel mondo onirico. Rovesciando così casualmente il canovaccio tradizionale sull’addomesticamento e il sogno, Di Benedetto pone gli uomini e gli animali – che siano vivi o morti, reali o immaginari – tutti sullo stesso piano esistenziale.

L’immagine che dà il titolo alla raccolta si ripresenta in «Caballo en el salnitral» [«Il cavallo nel salnitro», di cui è disponibile una versione italiana qui ndt], racconto in cui il protagonista umano viene improvvisamente abbandonato dopo essere stato colpito da un fulmine e la scena si concentra invece sul cavallo sconvolto, il cui destino è segnato dal pesante carro che deve continuare a trainare. Il cavallo muore, ma il suo corpo viene trasformato dalla natura in un nido: «Come una mano ripiegata, per ricevere acqua o semi, la testa del cavallo cieco accoglie nel fondo la dolcissima colomba. Dopo, quando le uova si schiuderanno, diventerà una cassa di trilli». In «El cariño de los tontos», invece, un personaggio si immagina madre delle mosche che le volano attorno perché «una le si è infilata dentro al naso e si è bloccata nella testa, ed è lì che le alleva, e tutte le mosche della cittadina sono allevate lì dentro». Questo tema ricorrente suggerisce sia l’incapacità mentale – una testa così vuota da potersi trasformare in un nido – sia il modo in cui la materia è assorbita e ritrova un uso e un significato grazie al miracoloso ciclo della vita. Indica inoltre un certo monismo ontologico da parte di Di Benedetto: uccelli, mosche, pensieri… Sono tutte cose che possiamo sentire muoversi disordinatamente all’interno della nostra testa.

La reticenza, la tortuosità intrinseca, la tendenza alla frammentarietà di questi racconti giovanili dimostrano che sono stati scritti durante le ore buche di un giornalista. «Per scrivere il mio libro non ho padrone», insiste Manuel Fernández in Zama. Il romanzo fu scritto da Di Benedetto durante un paio di settimane di vacanza dal giornale di Mendoza Los Andes. Possiamo immaginarcelo mentre butta giù un testo breve ed enigmatico come «El abandono y la pasividad» durante un fine settimana, un modo per allenare i muscoli dello scrittore che rimanevano intrappolati nello stile giornalistico per tutta la settimana lavorativa. I migliori racconti giovanili di Di Benedetto sono contenuti in questa raccolta e sono dei brevi voli dell’immaginazione, delle visite della lunghezza di un pisolino nella terra del cane onirico.

La carriera giornalistica di Di Benedetto, ma anche tutto il resto della sua vita, fu interrotta quando fu imprigionato e torturato dalla dittatura militare argentina nel 1976. Tuttavia, questa esperienza traumatica non gli ha impedito di scrivere. Avendo ricevuto il divieto di dedicarsi alla narrativa in prigione, Di Benedetto riuscì a mimetizzare i suoi racconti all’interno di lettere agli amici, che vennero poi pubblicate nel 1978 nella raccolta Absurdos, seguita nel 1983 da Cuentos del exilio. Su questi ultimi racconti scende un velo di desolazione, senza però affievolire la ricchezza dell’immaginazione. I temi che preoccupano lo scrittore nei primi racconti ci sono ancora tutti, ma qui vengono accompagnati da principi morali più alti.

«Pez» ha diversi punti di contatto con molti dei racconti che risalgono al periodo antecedente al carcere: un personaggio disabile, la presenza di animali e l’inclinazione al grottesco. Qui, però, Di Benedetto si spinge più in là rispetto ai racconti precedenti, combinando questi elementi all’interno di uno scenario di sofferenza comica in modo disperato. Il racconto narra gli ultimi giorni di Lumila, una donna paraplegica abbandonata a sé stessa dopo che il marito muore a letto accanto a lei. Rimasta sola a fianco di un corpo in putrefazione, con nessuno che possa sentirla a parte gli animali affamati della sua fattoria, Lumila aspetta invano che qualcuno venga a salvarla. La struttura del racconto è quasi identica a quella di «Caballo en el salnitral». In entrambi i casi una morte improvvisa è la causa di una seconda morte, lenta e agonizzante. In questo secondo racconto, però, il protagonista della tragedia è un essere umano e Di Benedetto vede solo orrore negli occhi dei cani che si ciberanno della donna. Mentre prima avrebbe scritto una scena simile con una scrollata di spalle maliziosa, questa volta si spinge ben oltre amplificando la violenza da incubo che resta implicita in racconti come «Nido en los huesos».

Un altro tema solo abbozzato in quest’ultimo racconto, l’idea che diventare partecipe della vita animale può rappresentare una via verso la redenzione per gli esseri umani, viene riproposto e amplificato fino a una dimensione quasi mitica in «Aballay». Il personaggio che dà il nome al racconto è un gaucho che si autoinfligge una pena per l’assassinio che ha compiuto: prendendo ispirazione dall’asceta San Simeone e dagli stiliti, che restano appollaiati in cima a una colonna per tutta la vita, decide di passare il resto dei suoi giorni in sella a un cavallo. Impara a dormire, cucinare e ad approvvigionarsi stando sempre in sella e scendendo solo quando strettamente necessario. La fusione tra vita umana e vita animale raggiunge nella figura di Aballay un’alta levatura morale. Vivere sopra a un cavallo significa vivere con lui, tanto che un gruppo di indiani finisce per chiamarlo «l’uomo-cavallo». Tuttavia, Aballay la notte è tormentato da un’immagine: sogna di vivere su una delle colonne utilizzate dagli stiliti mentre gli uccelli «gli beccano le orecchie, gli occhi, il naso e cercano di imboccarlo. Costruiscono nidi, depongono le uova… e per tutto il tempo lui è terrorizzato dal vuoto in cui cadrà se si muove». Gli animali restano un pericolo e una promessa, le loro belle piume nascondono artigli mortali. Vivere in mezzo a loro nonostante la minaccia che rappresentano richiede un certo tipo di eroismo.

Al Di Benedetto più giovane, quello che ha scritto Zama, non interessava la possibilità dell’eroismo, a meno che non diventasse un’occasione per creare momenti ironici e visionari. Don Diego de Zama è un antieroe definito dalla sua stessa impotenza, che non riesce a portare a termine quasi nessuno degli obiettivi che si prefigge, bloccato in uno stato di attesa. La maggior parte dei personaggi che popolano la raccolta Nest in the bones è ugualmente senza speranze. Come Di Benedetto, sono destinati al nulla: beccati a morte, mangiati vivi, consumati dagli stessi sogni che li fanno andare avanti. Anche Aballay alla fine viene ucciso dal figlio dell’uomo che aveva assassinato, trasformando la sua vita in un lungo periodo di attesa punteggiato di violenza. Però, all’uomo-cavallo viene concessa una forma di dignità che Don Diego non raggiunge mai: invece di rincorrere il riconoscimento terreno, segue le sue stesse leggi rinunciando a tutto tranne che alla sua sella. Solo un uccello-cervello poteva immaginare una vita così divina.

© Will Noah, 2017. Tutti i diritti riservati.

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