Harry Parker

«Anatomia di un soldato», un estratto

Harry Parker Autori, BIGSUR

Oggi esce in libreria Anatomia di un soldato, romanzo desordio di Harry Parker. D’ispirazione biografica ma dalla portata universale, il romanzo racconta le vicende del capitano dell’esercito inglese Tom Barnes e dei ragazzi afghani Faridun e Latif con un punto di vista estremamente originale: 45 capitoli narrati da un oggetto testimone dei fatti.
L’estratto che segue mostra la borsa della madre del capitano assistere alla comunicazione dell’incidente di Tom.  La traduzione è di Martina Testa, buona lettura.

di Harry Parker
traduzione di Martina Testa

Di norma ero posata sulla tovaglia verde mela in cucina. Quel giorno ero accanto al guinzaglio del cane sopra il giornale macchiato di caffè. Suonarono alla porta. Il cane abbaiò. Dietro il pannello di vetro si vedeva il profilo scuro di due persone. Lei arrivò dal soggiorno e si chiuse la porta alle spalle per tenere lontano il cane. Allungò il collo fuori per vedere chi era. Non aspettava nessuno.

Erano un uomo e una donna. Lui portava la cravatta del reggimento. La chiamarono per nome. Lei annuì. Le chiesero se potevano entrare. Lei si aggrappò alla porta socchiusa senza aprirla di più e chiese cos’era successo. Non voleva farli entrare. Aveva immaginato l’orrore di quel momento, ma era insensibile. Era consapevole della potenziale sofferenza. L’aveva afferrata alla gola e le tremava nello stomaco.

Ripensò al sorriso del figlio e all’ultima volta che era uscito dal cancello di casa dicendo che sarebbe andato tutto bene, e ricordò di aver pensato che non doveva sfidare la sorte in quel modo. Ripensò a quando lui aveva otto anni e piangeva mentre lo accompagnava a scuola. Ripensò a quando aveva finito l’addestramento, e a quanto lei ne era stata fiera.

Ricordò di aver provato lo stesso terrore ogni volta che aveva sentito suonare il campanello da quando lui era partito. Ricordò lo sforzo che faceva per scendere ad aprire, e il sollievo nello scoprire che erano solo piazzisti, e quanto era stata più gentile con loro. Adesso rimpiangeva di essere scesa al pianterreno.

Magari poteva semplicemente andare a portare a spasso il cane e al ritorno non li avrebbe più trovati. Non voleva affrontare questa cosa da sola.

Le chiesero di nuovo se potevano entrare. Lei li lasciò passare ma avrebbe voluto che se ne andassero via e non tornassero mai più: che non fossero mai esistiti. Mise il bollitore sul fuoco e gli chiese se volevano un tè. Finché non glielo comunicavano, non era vero.

Le risposero che non c’era bisogno e che era meglio che si sedesse. Una volta seduti attorno al tavolo l’uomo le fece una serie di domande per accertare la sua identità. Adesso lei voleva soltanto sapere, voleva che glielo dicessero, in modo che cominciasse l’orrore. Sapeva che stava per restare danneggiata; niente sarebbe stato più lo stesso. L’uomo le chiese se era la madre: certo che sì.

La donna si alzò in piedi. Aveva l’aria molto seria e da quando erano entrati non aveva detto una parola; probabilmente detestava quelle situazioni. «Glielo preparo io un tè», disse, e si avvicinò al bollitore. Prese una tazza dall’armadietto, ma quando vide che sopra c’era scritto Il soldatino di mamma la rimise a posto e ne scelse un’altra.

E poi l’uomo le raccontò cos’era successo. Suo figlio era rimasto gravemente ferito e lo stavano operando, in una struttura sanitaria di prima linea che era la migliore al mondo. Disse che ancora non erano noti molti dettagli ma che era ferito in maniera molto grave, aveva perso molto sangue e la gamba sinistra: per il momento si sapeva solo questo.

Lei fu sollevata: non era morto. Suo figlio era ancora vivo. L’uomo continuò a parlare e le chiese dov’era suo marito e se era il caso di chiamarlo. Lei allungò una mano e mi prese, aprì la mia fibbia magnetica e prese il telefono da dentro di me. Mentre informava il marito le tremava la voce, non sapeva più pronunciare le parole. Gli diede più dettagli che poté e poi le si cominciò a spezzare la voce e passò il telefono all’uomo. Lui ripeté le stesse cose che aveva spiegato a lei e poi mise giù il telefono e le disse che il marito stava arrivando.

Lei ripensò a quando durante le vacanze, a tre anni, il figlio correva lungo la spiaggia ridacchiando. Le veniva da piangere ma non poteva. Non di fronte a quelle persone. La donna le mise davanti una tazza di tè. Lei la guardò ma senza vederla.

Poi chiese cosa voleva dire ferito in maniera molto grave e se sarebbe sopravvissuto. Le diedero le risposte che, lo sapeva, erano addestrati a darle e si rese conto che per quanto avrebbe voluto che non fossero mai venuti era un brutto momento anche per loro, e le fecero pena.

Tutt’a un tratto si rese conto che il sollievo poteva essere infondato, che forse suo figlio era già morto su un tavolo operatorio. Pensò a lui che moriva: perfettamente formato e disperatamente lontano, senza di lei. E poi ricordò che l’uomo aveva detto che aveva perso una gamba e modificò l’immagine sul tavolo operatorio, e lasciò correre troppo l’immaginazione e aggiunse ferita a ferita. Lo deformò al punto tale che non era più suo figlio e per lei fu troppo, le si cominciò a raggrinzire il viso e chiese se potevano scusarla un attimo. Mi prese dal tavolo e uscì dalla cucina e salì incespicando al piano di sopra, tenendosi alla ringhiera delle scale.

Mi appoggiò sulla sedia laccata di bianco e si chinò sul water e vomitò. Vomitò di nuovo e si sforzò di non fare rumore: non voleva che la sentissero.

Si trascinò fino alla porta, la chiuse a chiave e ci si appoggiò contro. Mi tastò dentro cercando i fazzoletti di carta e si pulì attorno alla bocca e poi si asciugò le lacrime dagli occhi. Non stava piangendo, le lacrime erano solo dovute allo sforzo dei conati, e si chiese come mai. Si concentrò sul ritmo del respiro e aspettò. Sentì dei passi al piano di sotto e la donna di cui non ricordava il nome la chiamò dal fondo delle scale. Rispose con insofferenza che stava bene, le serviva solo un attimo.

Rimise a posto il pacchetto di fazzoletti e lasciò dentro di me la mano delicata e senza forze. Tremò, e gli anelli luccicarono. Poi strinse il pugno fino a farsi male e le si sbiancò la pelle e le vene sottili si gonfiarono, bluastre.

Si lavò i denti ma non trovò la forza di guardarsi allo specchio. Poi mi lasciò lì e scese al pianterreno. Da lì sotto arrivò il brusio delle voci, poi una macchina fece scricchiolare la ghiaia e il cane abbaiò eccitato. Mentre continuavano a parlare, nella conversazione entrò la voce profonda del marito. Quando una macchina ripartì era buio.

Tutti e due salirono al piano di sopra e lei si sedette sulla sedia bianca mentre lui si appoggiava sul bordo della vasca. Lei prese il telefono da dentro di me e cominciò a scrivere un messaggio alla madre ma poi invece la chiamò direttamente, per dirle cos’era successo. Lui la guardò parlare e quando ebbe finito disse che fino all’indomani non potevano fare niente. Le chiese se era sicura di non volere qualcosa da mangiare.

Nel cuore della notte lei entrò e si sedette sul water e si tenne la testa fra le mani per molto tempo, poi spense la luce e uscì.

Al mattino lui si fece la barba. Lei gli passò accanto e si mise sotto la doccia. Lui le chiese se andava tutto bene e lei capì che si era sentito stupido a chiederlo. Fra loro c’era una distanza che nessuno dei due voleva colmare con le parole. Lei si vestì e mi portò al piano di sotto e tirò fuori la rubrica del telefono e chiamò la pensione per cani: sì, era un’emergenza. Lui telefonò in ufficio e si sedettero al tavolo a guardare il porta toast. Nessuno dei due sapeva cosa fare. Lui uscì col cane e lei si stese sul letto.

 © Harry Parker, 2016. Tutti i diritti riservati.

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