Manca pochissimo all’uscita del nuovo romanzo di Rodrigo Hasbún: Gli anni invisibili.
Nell’attesa, abbiamo deciso di pubblicare tre testi inediti dell’autore, che sapranno poco a poco trasportarci nelle atmosfere del libro, e insieme regalarci piccole e luminose riflessioni sulla scrittura.
Ecco il terzo e ultimo brano, che più di tutto parla di cambiamenti, nella vita e nella scrittura, di personaggi (ne troverete di indimenticabili in questo romanzo) e di libri in cui andare a vivere come fossero case. Buona lettura!
di Rodrigo Hasbún
traduzione di Giulia Zavagna
Sono sette anni che cambiamo casa, io e lei. Solo ora, dopo il settimo trasloco, ho cominciato a chiedermi se sotto questo movimento costante ci sia forse qualcosa di malsano, un sintomo incomprensibile, una strana dipendenza. In ogni caso, i motivi di solito sono ragionevoli (un nuovo lavoro in un altro posto, un appartamento più grande e più economico), e noi li accettiamo di buon grado.
Cambiare casa, ovviamente, significa anche cambiare quartiere e città, perfino quando la città continua a essere la stessa. Senza aver nemmeno cominciato a disfare gli scatoloni, di solito passeggiamo per le strade nei dintorni in cerca del caffè più vicino e di qualche segnale di come saranno le nostre vite lì. Immagino che ci renda felici sperimentare lo stupore di chi è appena arrivato, il piacere e la consolazione della novità, anche se si tratta di una novità messa profondamente in discussione dalla nostra presenza, e anche dalle cose che portiamo con noi: i mobili e i libri, o quei tre o quattro quadri per i quali nei giorni successivi troveremo un posto e che, in un contesto ancora estraneo, ci offrono un certo senso di continuità.
Racconto tutto questo perché spesso penso alla scrittura in termini simili. Quando scrivo vado in qualche modo a vivere dentro un libro, e ogni libro ha delle finestre che si affacciano su quartieri e città diverse, e ogni libro è abitato da personaggi con i quali convivo per il tempo necessario, fino a conoscerli sul serio e a sapere che cosa li muove. Non credo ci sia nulla di più difficile di evocare con parole morte personaggi vivi, e ultimamente sento che questo è ciò più distingue i bravi romanzieri. In questo senso, uno dei mali peggiori della scrittura da manuale, vale a dire buona parte di quello che si pubblica ora, è l’insistere sulla «caratterizzazione», un concetto schematico e piatto. Un personaggio non è semplicemente un modo di parlare o di vestire, non è la somma di due o tre caratteristiche della personalità, non è un ricordo traumatico. Il risultato di quest’amalgama sono piuttosto caricature discrete, creature inoffensive e prevedibili che non rimangono con noi quando smettiamo di leggere. La persistenza di un libro risponde per me al tipo di vincolo che stabilisce con la vita («l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte», diceva Robert Filliou), e il miglior modo per stabilire quel vincolo è attraverso i personaggi, le loro sfumature e le loro contraddizioni e silenzi, i loro modi di abitare il presente e il passato e di affrontare gli altri e sé stessi, i loro modi segreti di rendersi visibili o invisibili.
Per avvicinarmi ai miei personaggi, la cosa che funziona meglio è passare quanto più tempo possibile accanto a loro. Nella pratica questo significa che a volte devo scrivere dieci scene (che poi non faranno parte del libro) per cominciare a intravedere qualcosa di loro. O che a volte continuo a scrivere una scena che ha già dato tutto quello che poteva dare solo per sapere come si comportano i personaggi allora, quando la festa è finita e gli invitati se ne sono già andati. So di molti cineasti che lavorano seguendo quello stesso impulso: girano decine di ore oppure ripetono una stessa scena centinaia di volte, in attesa che arrivi il luminoso istante che giustifica l’enorme quantità di materiale che verrà poi scartato. È un metodo catastrofico dal punto di vista economico, il meno efficiente di tutti i metodi, eppure è l’unico che intende l’attesa e le deviazioni e la perdita di tempo come parte essenziale del processo creativo.
Quanto ai libri pensati come case, un po’ in sintonia con quanto sopra, ciò che mi pare più necessario per costruirli, e per abitarli mentre li costruisci, è una buona dose di pazienza e convinzione. C’è poi bisogno di una varietà di materiali che felicemente si diluiscono nell’unità finale: mattoni e tubi e cemento e ferro e acqua e tutto il resto, vale a dire il desiderio e la memoria e l’immaginazione, le storie degli altri e le storie proprie e la deformazione di quelle storie, la curiosità e l’insoddisfazione, la certezza che il tempo complichi ogni cosa, la paura e la rabbia e l’amore. Non esiste una formula evidente, giuste misure di questo o quello. Ogni scrittore dosa a modo suo e in quel dosaggio possiamo apprezzare i contorni della sua visione e della sua sensibilità. Le case di alcuni sono austere e quelle di altri sono piene di decorazioni e meandri opinabili, quelle di qui male illuminate, quelle di un altro posto sono tutto il contrario, alcune certo crolleranno dopo la prima pioggia, altre si assomigliano troppo fra loro.
Il nostro ultimo trasloco è stato qualche settimana fa. Speriamo di non ripetere per un bel po’, ha detto lei e io, che pensavo la stessa cosa, ho annuito. Pensavo anche che ormai è ora che io vada a vivere in un nuovo libro. Ne ho qui una piccola pila, una montagnetta di case, sul tavolo. Volevo risfogliarli scrivendo queste righe. Ci sono Elizabeth Costello di J.M. Coetzee, un volume di saggi di Rebecca Solnit, uno di poesie di Claudia Rankine e Buonasera alle cose di quaggiù di Antonio Lobo Antunes, l’unico che non ho letto e al quale, però, mi piacerebbe rubare il titolo.
Lo immagino come una specie di mantra che potrei recitare ogni volta che sono sul punto di sedermi a scrivere. Buonasera alle cose di quaggiù, potrei dire in quel momento. Buonasera alle ore libere che ho davanti, al male alle ginocchia, alla tazza di caffè. Buonasera alle cose che si perdono e a quelle che si rompono ma anche a quelle che durano. Buonasera alle occupazioni inutili, al fatto miracoloso di poter ancora muovere le mani. Buonasera ai minuscoli dettagli di cui sono fatti i libri immensi. Buonasera alle storie che si rinnovano e moltiplicano e biforcano e che ci rivelano, a volte, le possibilità dell’umano. Buonasera a quei personaggi che mostrano il loro volto o lo nascondono, e a quelli che ci mettono profondamente in discussione. Buonasera alla prima parola che ne porta con sé un’altra e, poi, un’altra ancora.
© Rodrigo Hasbún, 2017. Tutti i diritti riservati
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