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Distanza di sicurezza di Samanta Schweblin | un assaggio

Samanta Schweblin Autori, Samanta Schweblin, SUR Lascia un commento

Pubblichiamo oggi un assaggio di Distanza di sicurezza, il libro di Samanta Schweblin che vi trasporterà in un’atmosfera talmente inquietante e surreale da non farvi dormire la notte.
Buona lettura! 

 

Distanza di sicurezza 
di Samanta Schweblin
traduzione di Roberta Bovaia

 

Sembrano vermi.

Che tipo di vermi?

Vermi, che senti dappertutto.

È il bambino che parla, mi sussurra all’orecchio. Io sono quella che fa le domande. Vermi nel corpo?

Sì, nel corpo.

Come lombrichi?

No, sono vermi diversi.

È buio e non ci vedo. Le lenzuola sono ruvide, si stropicciano sotto il mio corpo. Non riesco a muovermi, dico.

È colpa dei vermi. Bisogna avere pazienza e aspettare. E mentre si aspetta, bisogna capire qual è il momento esatto in cui arrivano i vermi.

Perché?

Perché è importante, è molto importante per tutti.

Cerco di annuire, ma il corpo non risponde.

Cos’altro succede, nel giardino? Io sono lì?

No, tu no, però c’è Carla, tua madre. L’ho conosciuta qualche giorno fa, quando siamo arrivate alla casa.

Che cosa fa Carla?

Finisce di bere il caffè e appoggia la tazza sull’erba, vicino alla sdraio.

E poi?

Si alza e si allontana. Dimentica le infradito, che restano qualche metro più in là, sulla scaletta della piscina, ma io non le dico niente.

Perché?

Perché voglio aspettare per vedere cosa fa.

E cosa fa?

Si mette la borsa in spalla e va verso la macchina nel suo bikini dorato. C’è una specie di attrazione tra noi, contrapposta a dei piccoli moti di fastidio, me ne accorgo in determinati frangenti. Sei sicuro che sia necessario osservare queste cose? Abbiamo il tempo di farlo?

Osservare è importantissimo. Perché siete in giardino?

Perché siamo appena tornate dal lago e tua madre non vuole entrare in casa mia.

Vuole evitare di darti problemi.

Che genere di problemi? Mi tocca entrare e uscire di casa di continuo, prima per la limonata, poi per la crema solare. Non lo chiamerei evitare problemi, questo.

Perché siete andate al lago?

Voleva che le insegnassi a guidare, ha detto che avrebbe sempre voluto imparare, ma quando siamo arrivate lì nessuna delle due ha avuto la pazienza necessaria.

E adesso in giardino cosa fa?

Apre la portiera della mia macchina, si siede al volante e fruga nella borsa per un po’. Io, dalla sdraio, metto a terra i piedi e aspetto. Si soffoca dal caldo. Poi Carla si stufa di frugare e afferra il volante con entrambe le mani. Resta per un attimo così, a guardare verso il cancello, o forse verso casa sua, oltre il cancello.

Cos’altro? Perché non parli più?

È perché sono dentro questo racconto, capisco che è così, ma ogni tanto è faticoso andare avanti. Forse è per via delle iniezioni che mi fanno le infermiere?

No.

Ma morirò nel giro di poche ore, è questo che mi accadrà, vero? È strano, sono molto tranquilla. Perché, anche se tu non me lo dici, ormai lo so, per quanto sia impossibile dirsi da soli una cosa del genere.

Niente di tutto questo è importante. Stiamo perdendo tempo.

Ma è vero, no, che sto per morire?

Cos’altro succede in giardino?

Carla appoggia la fronte sul volante e le sue spalle sussultano, si mette a piangere. Secondo te potremmo essere vicini al momento esatto in cui arrivano i vermi?

Vai avanti, concentrati sui dettagli.

Carla non fa nessun rumore, ma riesce comunque a farmi alzare dalla sdraio e le vado incontro. Mi è piaciuta fin dall’inizio, dal giorno in cui l’ho vista trasportare due secchi di plastica sotto il sole, con quel suo grosso chignon di capelli rossi e la salopette di jeans. Non vedevo qualcuno con la salopette da quando ero ragazza e sono stata io a insistere per offrirle una limonata, poi l’ho invitata a bere un mate la mattina dopo, e quella dopo e quella dopo ancora. Sono questi i dettagli importanti?

Il momento esatto è in un dettaglio, bisogna capire quale.

Attraverso il giardino. Quando giro attorno alla piscina, guardo verso la sala da pranzo e controllo dalla portafinestra che Nina, mia figlia, stia ancora dormendo abbracciata al suo grosso topo di peluche. Entro in macchina dalla parte del passeggero. Mi siedo ma lascio la portiera aperta e abbasso il finestrino perché fa parecchio caldo. Lo chignon di Carla si è un po’ allentato, è crollato tutto da una parte. Quando si accorge che sono lì, di nuovo accanto a lei, si appoggia allo schienale e mi guarda.

«Se te lo racconto», dice, «non vorrai più vedermi».

Penso a cosa dire, qualcosa tipo «ma Carla, ti prego, non essere ridicola», e invece mi ritrovo a guardarle le dita dei piedi, tesi sui pedali, le gambe lunghe, le braccia sottili ma forti. Mi stupisce che una donna con dieci anni più di me sia ancora tanto bella.

«Se te lo racconto», dice, «non vorrai più farlo giocare con Nina».

«Ma Carla, ti prego, perché dici così?»

«Perché è così, Amanda», dice lei, e gli occhi le si riempiono di lacrime.

«Come si chiama?»

«David».

«È tuo? È tuo figlio?»

Annuisce. Quel figlio sei tu, David.

Lo so, vai avanti.

Si asciuga le lacrime con le nocche e fa tintinnare i braccialetti dorati. Io non ti avevo mai visto, ma quando ho detto al signor Geser, il custode della casa che avevamo affittato, che mi vedevo con Carla, lui mi ha subito chiesto se ti avevo conosciuto. Carla dice: «Era mio figlio. Adesso non lo è più». 

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