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Oswaldo Reynoso: il marxista rabbioso

Mariana Enríquez Oswaldo Reynoso, SUR

È scomparso ieri, all’età di ottantacinque anni, lo scrittore peruviano Oswaldo Reynoso. In attesa della sua più celebre raccolta di racconti, Gli innocenti, che uscirà a luglio, lo ricordiamo oggi con la prefazione di Mariana Enríquez all’edizione italiana del romanzo Niente miracoli a ottobre.

di Mariana Enríquez
traduzione di Monica Crassi

Il romanzo inizia alle otto di mattina e si conclude alle nove e ventidue di sera, poco più di dodici ore di una giornata particolare, il giorno della processione del Signore dei Miracoli, nella Lima degli anni Sessanta. Da una parte c’è don Manuel, un obeso lascivo e potente, imprenditore e banchiere, uno dei padroni del Perù, che osserva la processione dal suo balcone coloniale turandosi il naso con un fazzoletto per non sentire l’odore di sudore e fatica, di pesce e birra che emana dal popolo; e la osserva insieme a Tito, il suo giovanissimo amante, uno dei figli di quel popolo che Don Manuel «si è comprato» (ma che in questo giorno di tuniche viola si sta ribellando, e non poco). Dall’altra c’è don Lucho, che attraversa tutta Lima dalle prime ore dell’alba in cerca di una nuova casa: lo hanno sfrattato, e finirà in mezzo a una strada con la moglie e i tre figli, adolescenti in pericolo, un pericolo palpabile che angoscia Lucho come il lettore, poiché la famiglia non sembra trovare un’alternativa, se non l’emarginazione: «Se lei sapesse quanto ho camminato per cercare una casa. Io non posso permettermi un affitto superiore ai mille soles, e non posso portare la mia famiglia in periferia o in un quartiere malfamato».
L’altra protagonista di Niente miracoli a ottobre (1965), il secondo libro del peruviano Oswaldo Reynoso e il primo a essere tradotto in un’altra lingua, è Lima. Una città che cambia ed esclude, attraversata da una manifestazione di fede e da una violenza appena accennata, ma imminente. «Niente miracoli a ottobre è uno di quei grandi romanzi urbani la cui pubblicazione coincise con il processo di ridefinizione simbolica di una nuova città», spiega Enrique Planas, narratore e giornalista culturale peruviano.

È in quel periodo che su Lima si riversano in maniera caotica le grandi migrazioni dalla campagna e iniziano a consolidarsi le sacche di povertà. Questo fenomeno di esodo dalla campagna verso la città non solo avrebbe obbligato Lima a guardare dentro sé stessa ma anche ad accettare, non senza conflitti, che il suo profilo sociale fosse molto più coerente con il resto del paese. Romanzi come Conversazione nella «Catedral», di Mario Vargas Llosa, o Niente miracoli a ottobre seppero riflettere l’inizio di questo grande cambiamento che continua ancora oggi in una città costantemente alla ricerca di sé stessa.

Questa Lima è narrata da Reynoso con lo stile che successivamente i critici avrebbero definito «realismo urbano» ma che è molto più di questo: passaggi di un appassionato lirismo si contrappongono a dialoghi in un serratissimo gergo giovanile limeño, e si alternano a brani descrittivi secchi, di austera bellezza. Reynoso esibisce il suo virtuosismo in qualsivoglia registro ma senza mai risultare pretenzioso o arrogante. E questo perché Niente miracoli a ottobre è chiaramente attraversato dalla ideologia dell’autore, dalla politica: Oswaldo Reynoso si proclama marxista – ora come allora – e un anno dopo la pubblicazione del romanzo, con Miguel Gutiérrez e Antonio Gálvez Ronceros, diede vita al gruppo Narración e all’omonima rivista. Nell’editoriale del primo numero è già esplicito il punto di vista del gruppo:

Come uomini e come scrittori, individui sociali, lottiamo per la trasformazione integrale e completa della nostra Patria. Auspichiamo la nascita di un sistema socialista di lavoratori, perché riteniamo che sia l’unica maniera di rendere il nostro paese un luogo dove tutti possano vivere umanamente. Comprendiamo, in quanto narratori rivoluzionari, impegnati nei confronti del proprio popolo, che il nostro compito è formare, attraverso l’azione e l’opera creativa, nella coscienza delle classi sfruttate, la necessità urgente della Rivoluzione. Pertanto, la nostra missione è apprendere dal popolo, per poter scrivere, senza commettere errori, sulla realtà della nazione. 

Tuttavia, Reynoso non è mai stato uno scrittore programmatico; la sua prosa è sufficientemente sofisticata, troppo elegante e in alcune occasioni, per esempio in libri come El escarabajo y el hombre, del 1970, quasi sperimentale. Il suo lavoro sulla lingua è ossessivo, e raggiunge passaggi di luminosa bellezza.

La città del peccato
Niente miracoli a ottobre non fu ben accolto dalla critica quando uscì a metà degli anni Sessanta, nonostante il primo libro di Reynoso, Los inocentes (1961), fosse stato elogiato addirittura da José María Arguedas. Sul prestigioso quotidiano El Comercio, per esempio, il critico José Miguel Oviedo scrisse:

Tratteremo l’autore del romanzo come ciò che evidentemente è: uno scrittore attratto dall’abiezione, dalla morbosità e dall’immondizia nella quale si rotola l’uomo di questa pudibonda città. I rapporti sessuali sono un graduale percorso verso la perversione: come se non bastasse la sodomia, vi si aggiungono ulteriori ingredienti quali droga, bestialismo, alcol. Ci sono pagine disgustose che devono essere senza indugio scaraventate nella spazzatura, e l’autore è un marxista rabbioso.

Stranamente, fra i pochissimi difensori di Niente miracoli a ottobre – romanzo che possiamo senz’altro considerare uno dei più importanti affreschi urbani della letteratura latinoamericana – ci fu Mario Vargas Llosa, le cui opinioni politiche sono oggi a mondi di distanza da Reynoso. Allora, tuttavia, seppe cogliere l’importanza di questa gemma in mezzo al fango. Scrisse su Expreso nel 1966:

Il romanzo di Reynoso non è pornografico né osceno. È un libro di una crudezza fredda e aspra, che ha l’alto merito – raro, tra noi – della protervia e dell’ambizione. L’autore ha voluto tracciare un affresco veridico e molteplice di Lima, una radiografia orizzontale e verticale della città, così come lo fece con il Messico Carlos Fuentes in La regione più trasparente, e ci è in gran parte riuscito.

Cosa c’era in Niente miracoli a ottobre da creare un tale subbuglio? Da una parte, il registro fino ad allora molto raro nella letteratura peruviana, della parlata e delle abitudini delle classi popolari. Dall’altra, forse ancor più d’impatto, l’apparizione di personaggi gay, di giovani che si prostituiscono per il sollazzo dei potenti, di corpi snelli desiderati per le strade di Lima. Un aspetto, questo, che appariva già in Los inocentes, la raccolta di racconti sugli adolescenti che trasformò Reynoso in uno scrittore d’iniziazione e il suo libro in un talismano. Nel primo racconto, scrive:

Ora gli faccio cacare sangue a questo vecchio che fa finta di guardare la vetrina quando in realtà mi sta mangiando con gli occhi. Se ne sta lì, guarda che ti riguarda. Faccio finta di non vederlo. Il suo sguardo brucia. Sicuramente sono rosso in faccia. E a lui piace: innocenza e peccato.

A parlare è Faccia d’Angelo, uno dei personaggi più celebri della letteratura peruviana. Che cosa significa la figura di Reynoso per i giovani scrittori e lettori peruviani? Álvaro Lasso, il suo editore peruviano, spiega:

È un autore molto studiato e influente sull’ultima generazione di narratori. Moltissimi peruviani l’hanno letto, soprattutto persone delle classi sociali più basse, e questo grazie al fatto che Oswaldo ogni anno visita le scuole di provincia. Negli spazi sociali nei quali si definisce il canone peruviano, invece, viene completamente ignorato. Prima, negli anni Settanta, si criticava l’autore per la sua omosessualità e per le sconcezze presenti nei suoi testi, mentre ora viene criticato perché mantiene la sua ideologia di sinistra. Ma se parliamo di un vero trasgressore della letteratura peruviana, di un narratore che deve occupare lo stesso posto di Vargas Llosa, Bryce Echenique e Arguedas, questo è Oswaldo Reynoso.

L’autore
Oswaldo Reynoso è nato ad Arequipa nel 1931, e fin dall’adolescenza si è dedicato alla letteratura e all’insegnamento. Nel 1952 si trasferì dall’Università di San Agustín, nella sua città natale, alla Cantuta di Lima, per diventare professore e scrittore. Insegnò in molte università peruviane (Huamanga, Villareal, San Marcos, Ricardo Palma), ma fece anche da maestro agli scrittori più giovani, che gli portavano – e ancora gli portano – i loro manoscritti.
Bisogna inoltre riconoscere la posizione atipica di Reynoso nella letteratura peruviana. La sua produzione, tanto per cominciare, è brillante ma ridotta: dopo Los inocentes (1961), Niente miracoli a ottobre (1965) e El escarabajo y el hombre (1970), rimase in silenzio fino al 1993, quando pubblicò En busca de Aladino, e poi, nel 1995, Los eunucos inmortales. Che cosa è successo in questi anni di silenzio? Reynoso è andato a vivere in Cina, dove è stato professore e correttore di bozze per l’Agenzia di Stampa Xinhua di Pechino. In Los eunucos inmortales, il romanzo che ritrae gli anni di lavoro in Cina e la rivolta studentesca culminata con il massacro di Tienanmen nel 1989 (di cui Reynoso fu testimone), spiega le ragioni di quell’esilio volontario. Scrive: «Volevo vivere in un paese socialista e avevo l’impressione che qui avrei trovato la felicità». Non la trovò, e lo ammette.
Nel marzo del 2007 concesse un’intervista a El Hablador nella quale rivendicava il proprio marxismo, la posizione militante presa nel primo numero della rivista Narración, e rifiutava di esprimere la propria opinione su Sendero Luminoso. Poco dopo, in pubblico, fece riferimento agli anni di guerra civile come a una «guerra popolare», cosa che gli costò ulteriore collera, accuse di «populismo intellettuale» e irritazioni di critici e scrittori. Per molti, Reynoso fa la vittima: ha un discreto successo di vendite e una buona presenza sui media e, tuttavia, afferma di essere discriminato. Per altri, come il già citato Lasso, Reynoso non ha «il riconoscimento che merita, né il luogo che dovrebbe occupare nel canone latinoamericano. Merita di essere tradotto e pubblicato in altri paesi».
Nel frattempo, Reynoso preferisce fuggire dalle polemiche e continuare a lavorare, non solo scrivendo, ma anche occupandosi del laboratorio di narrativa che tiene a casa sua, nel quartiere limeño di Jesús María. Può contare, e lo sa, su una grande quantità di fedeli e allievi; sa che a ottantaquattro anni, con i suoi capelli bianchi, continua a essere uno scrittore giovane e scomodo; e poi, è uno scrittore quasi segreto, poco conosciuto fuori dal suo paese natale. «I miei libri continuano a vendere dopo più di quarant’anni», diceva in un’intervista del 2006, «anche se non appaiono mai nelle classifiche dei libri più venduti. Credo, senza peccare di vanità, di essere il best seller clandestino del Perù».

© Mariana Enríquez, 2015. Tutti i diritti riservati.

Mariana Enríquez è una giornalista e scrittrice argentina. È autrice delle raccolte di racconti Los peligros de fumar en la cama (2009), Quando parlavamo con i morti (Caravan, 2014) e Las cosas que perdimos en el fuego (2016).

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