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Vuelvo al Sur / 2. Reportage dal centro del mondo

redazione Reportage, SUR 6 Commenti

Pubblichiamo oggi la seconda parte del reportage di Jadeel Andreetto che ci parla delle baraccopoli di Buenos Aires. La terza e ultima parte venerdì. Qui la prima parte.

di Jadeel Andreeto
(membro dei Kazen)

I muri senza intonaco spengono, tolgono luminosità, e la casa di Rey è spoglia. Non è né sporca, né disordinata, forse è solo triste. Prendiamo tre sedie e le mettiamo fuori dalla porta, in strada. Il mio contatto si infila nella casa accanto, lo seguo, al piano terra, in un garage raffazzonato, c’è una specie di emporio. Poche cose: pannolini, biscotti, scatolame e birra. Prendiamo un paio di bottiglie da 66. Ci sediamo con Mariana, beviamo la birra e aspettiamo che torni Rey ed è così, da seduto, che mi accorgo di una cosa. Nei muri della casa di Rey, di quella di fronte, di quella accanto, di tutte, ad altezza uomo ci sono dei buchi. Sono fori di proiettile. Ce n’è uno, circondato da un anello di ruggine, anche accanto a me, sulla porta di ferro. Due ragazzini giocano palleggiando con un pallone giallo scucito, poco lontano alcune ragazze chiacchierano accanto a un microscopico giardino circondato da una rete malandata, tutti scambiano delle battute con la mia guida. Poi arriva un bambino, avrà sei o sette anni. Sembra conoscere bene il mio uomo, che gli carezza la testa, scherza con lui e si fa raccontare la sua giornata a scuola. Gli dice che è importante andare a scuola, poi indica i due che giocano e dice che è importante anche giocare bene a calcio. In qualche modo bisogna provare a uscire dalla villa, meglio se vivi e ricchi. Quando si allontana, mi racconta che il padre è un tossico di crack e che di lui si sta occupando il nonno. E il nonno arriva. Avrà meno di quarantacinque anni, indossa dei calzoncini sportivi corti e lucidi, un paio di nike e una canottiera da basket bianca. È brizzolato e muscoloso. Saluta tutti e prosegue verso casa con un sacchetto della spesa che dondola a ogni passo. Mariana ci mostra delle foto della notte di Natale e quando venti minuti dopo arriva Rey, ho la strana impressione che sia molto più vecchio di quanto sembrasse in foto. Zoppica, ha il volto segnato dalla rughe e un paio di occhi grigi a fessura che sembrano sorridere. Mi stringe la mano vigorosamente, è piccolo ma forte, il fisico asciutto, nervoso e la mano è piena di calli. Si siede e chiede alla moglie di portare del ghiaccio per la gamba, si è stirato un muscolo giocando a pallavolo. Il mio uomo gli racconta che vengo dall’Italia. Non so per quale motivo capisce che sono cileno, mi dice che vorrebbe andare in Cile prima o poi, gli rispondo che anche a me piacerebbe. Alla fine si convince del fatto che io sia italiano ma si stupisce perché scopre che in Italia non si parla spagnolo, e ancor di più quando scopre che si parla italiano. Dice che un giorno gli piacerebbe andare in Italia anche se non sa esattamente dove si trovi. La gamba gli fa male, la allunga in grembo alla moglie che è andata a prendersi un’altra sedia e gli posa il sacchetto sullo stinco.

Il cielo di Buenos Aires è sempre molto generoso con i colori e al tramonto ci offre uno spettacolo di azzurri, rosa, arancione e viola da togliere il fiato. In fondo alla strada, più o meno al centro della villa sorge una chiesa, con l’oscurità la croce si illumina al neon di blu. Mi raccontano del prete. Giovane, barbuto, tenace, ha combattuto una guerra personale al crack e alla pasta base della coca, ha lavorato sodo con i ragazzini e sembra ne abbia convinti molti a lasciar stare il “paco” come si chiama da queste parti. Chiedo se posso incontrarlo. No. Se ne è andato questa mattina con una festicciola d’addio e stanno aspettando il sostituto. Ha perso la battaglia tra minacce, intimidazioni e violenze. “Vedi”, dice la guida, “qui la vita umana non vale nulla. I paraguaiani sono terribili, non sono come gli argentini che, essendo figli di italiani, fanno tanto i palloni gonfiati ma poi non fanno nulla. No, no. I paraguaiani, come gli indios, sono silenziosi, dimessi, non ti insultano, non gridano, non ti danno del hijo de puta – la puta que te pariò, no, no, i paraguaiani ti dicono: ti taglio la gola, e un secondo dopo ti tagliano la gola.”

Rey sorseggia la birra, poi prende un mazzetto di banconote lise da due pesos e manda Mariana a comprare altre birre, insisto per offrire io, ma sono l’ospite e non se ne parla, anzi mi invita, con tutta la famiglia per un asado, una grigliata, la domenica dopo. Continuiamo a bere, seduti in strada, il viavai aumenta, passano alcuni ragazzi in bicicletta e si fermano a chiacchierare, arrivano anche un paio di amici e si siedono con noi. Uno di loro allunga cento pesos a Rey, che li intasca senza dire nulla. Rey fa il muratore, la casa l’ha costruita lui, ma vende anche erba. Ogni tanto prende un autobus va in Paraguay e torna con un carico di marijuana pressata.

La strada si anima, se non fossimo tra lamiere, materiale di fortuna, cavi elettrici e baracche sembrerebbe una sera normale. Poi un rombo rompe il chiacchiericcio. Tre moto di grossa cilindrata senza targa sfrecciano a tutta velocità tra uomini, donne e bambini; a bordo dei ragazzini, avranno sì e no dodici anni. Nessuno sembra farci caso, se non nel momento in cui devono scansarsi. Arriva una quarta moto, è un modello sportivo, verde e bianco, il ragazzino in sella non la sa portare, sbanda, accelera a vuoto, ingrana le marce a forza, la spegne, la riaccende, quasi si schianta contro un muro e per poco non travolge due bambini piccoli che si sono avvicinati incuriositi. Prosegue a strappi per tutta la stradina, fino a sparire dietro l’angolo. “Le rubano e non sanno nemmeno guidarle”. Questo è l’unico commento che sento sull’accaduto.

La vita umana non vale nulla da queste parti. Comincio a capire. Poi Rey racconta che proprio il giorno prima hanno ammazzato tre ragazzi a pochi incroci da dove siamo noi, non posso fare a meno di guardare i fori di proiettili nei muri, e come se volesse anticiparmi, aggiunge che li hanno fatti fuori a coltellate. Poi segue il mio sguardo. “Ogni tanto qualcuno passa in moto e spara, a capodanno e a Natale è stato un inferno tra petardi, fuochi d’artificio e pallottole.” Ad altezza uomo, penso. E quando sento il rombo di una moto in lontananza, e quando vedo il faro avvicinarsi, e quando mi passa accanto senza che nessuno batta ciglio, provo un brivido. Ma è qualcosa di vago, come se all’improvviso fossi diventato fatalista. Mi accorgo davvero che la vita non vale un soldo bucato e che tutti ne sono consapevoli, talmente tanto da non fare nulla. Osservo la fila di sedie su cui siamo seduti, penso ai colpi d’arma da fuoco sparati qualche giorno prima per festeggiare il nuovo anno. Uno di quei colpi, ha fatto un buco sul muro, quel buco è esattamente dietro la mia testa…

È cronaca degli ultimi mesi. A Villa Soldati, un barrio popolare, che un tempo faceva parte dell’area di Villa Lugano, sorge un parco dedicato alla memoria degli studenti desaparecidos. Nei pressi del parco si trova una teoria di monoblocks, complessi edilizi popolari che ospitano il 40% della popolazione del quartiere. Il parco è stato occupato da centinaia di famiglie provenienti da Perù, Bolivia e Paraguay che nel giro di poche settimane hanno cominciato a costruire un insediamento di fortuna. La questione politica argentina è molto delicata ma per quanto riguarda gli avvenimenti che per due settimane hanno trasformato Villa Soldati nello scenario di una guerra civile metropolitana sono riconducibili, a grandi linee, a interessi di partito e manovre politiche in vista delle elezioni.

I giornali hanno di nuovo usato il termine favelizazzione, hanno puntato i riflettori, a seconda del loro orientamento, sulla questione sicurezza o sulla questione abitativa, ma andiamo con ordine. A metà dicembre gli abitanti dei monoblocks, hanno aspettato invano un intervento delle forze dell’ordine ed esasperati dalla presenza degli occupanti hanno deciso di occuparsene in prima persona. Accompagnati da una manciata di hooligan facenti capo ad alcune frange estreme delle tifoserie calcistiche cittadine, alcuni gruppi di residenti del barrio si sono armati di bastoni, lame e pistole e hanno affrontato gli occupanti. Il bilancio tra morti e feriti è stato grave e l’escalation di violenza dei giorni successivi ha scatenato la stampa che ha messo Buenos Aires e l’Argentina definitivamente a fare i conti con la favelizzazione. Ma per quale motivo la polizia non è intervenuta?

Sembra che il sindaco della capitale,  avesse promesso agli occupanti delle terre nel quartiere, salvo poi negare tutto. La polizia metropolitana però non è entrata in azione perché Macri ha dato l’ordine di non farlo in quanto riteneva che fosse di pertinenza della polizia federale che dipende dal governo centrale e quindi dal governo Kirschner, di cui Marci è oppositore. Di fatto la polizia federale è stata costretta a intervenire dopo giorni di scontri tra residenti e occupanti schierandosi in modo da proteggere gli occupanti mentre abbandonavano la zona del parco. La questione sicurezza è salita così alla ribalta delle cronache mentre la popolarità di Cristina Kirchner scendeva nei sondaggi. Mossa politica, scarso coordinamento dell’amministrazione pubblica e delle forze dell’ordine o incapacità di reagire a un fenomeno in crescita esponenziale come l’immigrazione e la favelizzazione della città? Fatto sta, che mentre i talkshow soffiavano sul fuoco, sul prato bruciato e devastato di Villa Soldati sono riamasti a terra dei corpi di alcuni disperati e altri disperati sono tornati pieni di rancore, rabbia e paura ai loro monoblocks.

Non riesco a staccare lo sguardo dal foro del proiettile, Rey mi racconta che hanno ammazzato anche suo cugino a qualche strada da dove ci troviamo. Nel tono della sua voce non c’è incrinatura, le sue parole suonano come se stesse parlando delle previsioni del tempo. La guida mi racconta che secondo lui l’indifferenza, se non lo spregio, verso la vita umana dei paraguaiani ha radici lontane, risale alla Guerra della triplice alleanza, come il loro atteggiamento machista verso le donne. Il vicino di casa di Rey è morto a sua volta. Una serie di coltellate all’addome gli hanno fatto rovesciare le viscere in strada. A farlo fuori il dirimpettaio a cui aveva fatto da padrino al battesimo del figlio. Tutto è nato da una banale lite calcistica. Meglio il River, meglio il Boca, meglio L’Olimpia, meglio il Libertad… L’assassinio si è trasformato presto in una faida familiare che ha lasciato a terra sette persone.

Tra il 1865 e il 1870 il Paraguay si schierò contro Argentina e Brasile, affiancati come se non bastasse dall’Uruguay, per questioni politco-territoriali. È come se oggi il Portogallo dichiarasse guerra alla Francia, all’Inghilterra e alla Svizzera contemporaneamente e infatti durante il conflitto la popolazione paraguaiana venne dimezzata, da oltre 525 mila persone si passò a poco più di 221 mila e di quei 221 mila solo 28 mila erano di sesso maschile: ogni otto donne c’era un uomo o meglio c’era un vecchio o un bambino o un ragazzino. Un cambiamento demografico legato alla “sopravvivenza della specie” che influenzò pesantemente i ruoli sociali di genere e che, ancora, oggi è radicato nella cultura paraguaiana per cui la poligamia è cosa quotidiana, come lo sono maltrattamenti, uxorocidi, femminicidi, sfruttamento e violenze. Molte famiglie della media borghesia bonaerense ospitano in casa per cinque giorni su sette delle mucamas, donne tuttofare, di origine paraguaiana che spesso fanno anche altri due o tre lavori per mantenere i loro uomini nullafacenti. La guida è irremovibile, secondo lui, los hombres paraguayos sono tutti uguali. E lo sono a causa del loro passato di “maschi da monta” da preservare e curare per la prosperità, o meglio la sopravvivenza, di un paese ridotto in cenere da una guerra di fine Ottocento…

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