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Acqua di mare, un estratto

Charles Simmons Autori, BIGSUR Lascia un commento

Pubblichiamo oggi un estratto di Acqua di mare, dello scrittore americano Charles Simmons. Elegante, delicato e malinconico, questo libro straordinario – pubblicato per la prima volta nel 1998 – non ha perso un briciolo della sua freschezza, tanto da essere stato scelto da alcune librerie come il romanzo perfetto da portare sotto l’ombrellone. Buona lettura!

 

Acqua di mare
di Charles Simmons
traduzione di Tommaso Pincio

 

Nell’estate del 1963 mi innamorai e mio padre annegò.

Alla fine di giugno, per una settimana, a mezzo miglio dalla costa si formò una secca. Non potevamo vederla, ma sapevamo che c’era perché in quel punto dell’oceano le onde si infrangevano. Ogni giorno, all’arrivo della bassa marea, ci aspettavamo di vederla affiorare. Nessuna secca si era mai formata tanto al largo e ci domandavamo se avrebbe retto. In quel caso, con l’acqua calma e noi al riparo, avremmo potuto spostare l’Angela in prossimità della riva di fronte casa anziché tenerla a Johns Bay, sul lato opposto di Bone Point. Anche il modo di nuotare sarebbe cambiato ovviamente, si sarebbe nuotato come nella baia e sarebbe stato una rovina per la pesca al lancio.

Pescavamo sulla spiaggia, io e papà. Ricciole, ombrine, pesci serra e spigole. Le spigole davano maggior filo da torcere ma erano più buone da mangiare. Prendevamo anche parecchi squali della sabbia, pesci piccoli e inutili che restituivamo all’oceano. A volte puntavamo agli squali veri, con grossi ami, troppo pesanti da lanciare. Ci agganciavamo un filetto di sgombro e io andavo al largo a nuoto, lasciando cadere l’esca sul fondale. Lo facevo anche da piccolo, solo che allora mi spostavo galleggiando con il salvagente, mollavo l’amo e papà mi tirava a riva con una fune. A mamma la cosa non andava a genio, anche se lo facevamo soltanto col mare calmo. Prendemmo uno squalo martello di quasi cinquanta chili una volta, il pesce più strano che abbia mai visto. La testa pareva una mazza da fabbro munita di occhi alle estremità. La gente diceva che mangiava l’uomo, ma papà sosteneva il contrario.

Prendevamo anche razze. Se papà ne agganciava una all’amo mentre ero su in casa, lanciava un grido e io mi precipitavo con la gaffa. Le razze sono piatte e larghe. Se le catturi vicino a riva, nell’acqua bassa, capita che si attacchino al fondale e diventa impossibile tirarle via. Ti tocca entrare in mare con gli stivali e trafiggerle con la gaffa di modo che l’acqua penetri all’interno e interrompa l’effetto ventosa. Prendevamo razze larghe un metro e mezzo. Hanno code appuntite che agitano come fruste dando belle mazzate. Prima di affondare la gaffa nella razza bisogna bloccarle la coda con il piede e mozzarla. In certi posti c’è chi se le mangia, non noi però.

Non mi avventuravo mai in acqua con la gaffa. Papà non voleva. Andava lui e io reggevo la canna. Una volta, dopo che papà aveva già mozzato la coda e affondato la gaffa nel corpo, la razza scappò con tutta la gaffa e mi portò via con sé. Il mulinello era bloccato. Strinsi forte la canna e venni trascinato fin dove si trovava papà. Lui mi strappò la canna di mano e quando infine riuscimmo a riprenderla, la razza era quasi morta. Tagliammo la lenza e lei andò alla deriva.

«Poniamo fossi stato da solo», disse papà, «per quanto l’avresti tenuta? Per sempre?»

«Sì», dissi io, e lui mi strizzò la spalla. Quell’estate avevo sette anni.

Bone Point era un posto speciale. Durante la prima guerra mondiale il governo l’aveva requisito per scopi militari, come pure durante la seconda. In seguito divenne una riserva federale permanente. Nel 1946 non c’erano che poche case. In base all’accordo con il governo, chi ne aveva già una poteva tenersela per altri quarantacinque anni, fino al 1991, ma non era permesso costruirne di nuove. Mamma e papà ereditarono la nostra nel 1948, l’anno in cui nacqui io e il padre di mamma morì. L’aveva costruita lui nei primi anni Trenta, e anche mamma ci aveva passato le estati della sua infanzia.

Era figlia unica, come me. Sosteneva che la casa era troppo grande per loro, così come la trovava grande per noi. Mamma era un lamento continuo. La casa non era troppo grande. A me piaceva tutto quello spazio, quella luce. Il pianoterra era pieno di finestre e porte a vetri, e la veranda girava tutt’attorno alla casa. Anche a suo padre piaceva quella luce, diceva mamma. Ripeteva spesso che io glielo ricordavo e ne ero contento perché lei gli aveva voluto un bene dell’anima, ma sentivo di assomigliare più a papà. Delle cose che papà diceva e pensava, non erano molte quelle con cui non mi trovassi d’accordo.

I mobili risalivano al tempo di mio nonno, ed erano tutti enormi. In soggiorno, per dire, c’era un divano di vimini su cui papà poteva stendersi a leggere, con me sdraiato all’estremità opposta e senza che i nostri corpi si accavallassero se non dalle ginocchia in giù. Camera mia era abbastanza grande per ospitare il letto a due piazze e lasciarmi ancora un sacco di spazio. Blackheart, il mio cane, dormiva sempre con me, e non ci davamo mai fastidio. Dovevamo sempre riabituarci, a settembre, una volta tornati in città dove il mio letto era di dimensioni normali.

Anche se dopo una settimana di fatto non riuscivamo a vederla, la presenza della secca diventava di giorno in giorno più evidente. Vi si infrangevano onde belle grosse.

«Ti va una nuotata?», disse papà.

Pareva avermi letto nel pensiero.

«La marea è bassa adesso», aggiunse. «Possiamo arrivare alla secca e riposarci lì. Al ritorno la marea comincerà ad alzarsi e ci porterà a riva. Che ne dici?»

Eravamo ottimi nuotatori entrambi. Papà nuotava a stile libero, di solito. Io preferivo il dorso, che sebbene più lento era meno stancante e mi concedeva il piacere di guardare il cielo mentre nuotavo. C’è qualcosa di meglio dello starsene col corpo in acqua e la mente in cielo? Ogni volta che nuotavamo insieme, essendo lui più veloce, papà passava in testa, si girava su sé stesso, si immergeva, restava sotto, riaffiorava e faceva il pagliaccio finché non lo raggiungevo. Era un vero delfino.

Pensai che stavolta non fosse il caso di scherzare. Dovevamo nuotare verso il largo per quasi un chilometro, e stava sprecando energie. Poi, a circa duecento metri dalla costa, capii che avevamo sbagliato i calcoli. Andavamo troppo veloci. La marea non si era abbassata del tutto, come pensava papà. L’acqua stava ancora defluendo e accelerava il nostro cammino verso la secca. Ogni giorno che passa la marea si fa attendere un’ora in più. Eravamo partiti a mezzogiorno e mi ricordai che il giorno prima c’era stata proprio a mezzogiorno. Ci sarebbe voluta ancora un’ora per la bassa marea. Lo dissi a papà.

«Fa niente. Possiamo aspettare sulla secca prima di tornare».

Non sembrava preoccupato, ma smise di fare il pagliaccio.

Raggiunta la secca scoprimmo che l’acqua era più profonda di quanto ci aspettavamo. Papà poteva stare in piedi con la bocca al di sopra dell’acqua, ma io no. Provò a tenermi per mano affinché la marea non mi portasse più al largo, ma questo lo costringeva a staccare i piedi dal fondale. Mi toccò nuotare per restare sul posto.

«Non possiamo fermarci», disse. «Dobbiamo tornare. Non farti prendere dal panico. Capito?»

«Capito. Niente panico».

«Vuoi che ti aiuti?»

«Mi prenderà il panico, se mi aiuti».

Rientrare non fu uno scherzo. Ci diede forza la consapevolezza che la marea contraria andava indebolendosi. Il punto era: si sarebbe sfiancata prima di noi?

Sulla spiaggia, figure in piedi che ci guardavano. Quando fummo più vicini a riva e capii che ce l’avremmo fatta mi girai a pancia in giù e salutai mamma. Feci una bella bevuta. C’era anche Blackheart, assieme alle due persone che avevano affittato la dépendance e al loro cane. Ci vollero venticinque minuti per rientrare, mentre ce ne avevamo messi soltanto dieci per raggiungere la secca.

Io e papà restammo sdraiati a lungo sulla spiaggia. I due cani ci annusarono per vedere se eravamo vivi. Mamma mi teneva la mano. Ce l’aveva a morte con papà. Le due inquiline, che si erano appena trasferite nella dépendance, rimasero con noi. La signora Mertz aveva la stessa età di mamma. Sua figlia, Zina, era stupenda anche a testa in giù. Aveva occhi e capelli castani, la pelle dello stesso colore anche se una tonalità più chiara, e le labbra rosso porpora. Sembravano intagliate. Non smetteva di abbracciare e carezzare il suo cane, come se fosse lui ad aver corso un pericolo anziché noi. Poi mi toccò la guancia; per curiosità, pensai. Mi innamorai di Zina a testa in giù.

Quella sera, dopo cena, papà mi fece cenno di andar fuori con lui. Camminammo fino alla battigia, senza dire granché. Voleva guardare l’acqua, pensai, o stare lontano da mamma, che non gli parlava. Era stata una giornata limpida e luminosa. L’aria si era fatta densa e umida ora, e un vento gelido arrivava dall’oceano, increspando le onde.

«Per un attimo, alla secca, ho pensato che volessi abbandonarmi», dissi.

«Non lo farei mai. Perché lo hai pensato?»

«È stato solo un pensiero».

«Tu mi avresti abbandonato?», disse papà.

«Nossignore».

«Bene, meglio così», disse, e mi cinse la spalla con il braccio. Ogni volta che lo faceva sentivo che mi voleva bene.

Rientrammo in casa. Mamma stava accendendo il fuoco.

«Siete tornati sulla scena del delitto?», disse. Le stava passando. Prima di andare a letto giocammo a Monopoli. Il vento cambiò, durante la notte tirò da nord-est. Andò avanti per tre giorni, e quando calò la secca era sparita.

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