Paley_Grace_03_12_1980

«Il poeta parla al mondo, mentre l’autore di racconti fa in modo che sia il mondo a parlargli», intervista a Grace Paley

Ilya Kaminsky and Katherine Towler Autori, BIGSUR, Interviste, Ritratti Lascia un commento

Avete già sfogliato Tutti i racconti di Grace Paley? Per conoscere meglio una delle maestre della short story americana pubblichiamo oggi un’interessante intervista del 2008 uscita su Poets&Writers. Ringraziamo gli autori per la gentile concessione. Buona lettura!

 

di Ilya Kaminsky and Katherine Towler
traduzione di Dario Matrone

 

Grace Paley è nata nel Bronx l’11 dicembre 1922, da immigrati ebrei russi. Pur avendo cominciato la carriera letteraria come poetessa, ha trovato la voce che l’avrebbe resa celebre quando ha iniziato a scrivere narrativa, dopo i trent’anni, attingendo pesantemente alla propria infanzia nel Bronx e alle esperienze di quartiere nel Greenwich Village. Ha pubblicato tre raccolte di racconti che l’hanno consacrata come maestra di questa forma: The Little Disturbances of Man (Doubleday 1959), Enormous Changes at the Last Minute (Farrar, Straus and Giroux 1974) e Later the Same Day (FSG 1985). Nel 1994 FSG ha pubblicato l’antologia Collected Stories, finalista sia al Premio Pulitzer che al National Book Award [edizione italiana: Tutti i racconti, SUR 2018]. È autrice anche di una raccolta di saggi, Just As I Thought (FSG 1998), e di alcuni volumi di poesie, tra cui Leaning Forward (Granite Press 1985) e New and Collected Poems (Tillbury Press 1991). Questo mese FSG sta per pubblicare la sua ultima raccolta di poesie, Fidelity, da lei completata poco prima di morire [edizione italiana: Fedeltà, minimum fax 2011]. Grace Paley ha vissuto a Manhattan e a Thetford Hill, nel Vermont. Ha insegnato al Sarah Lawrence College e al City College di New York. Dal 1986 al 1988 è stata il primo Autore di Stato di New York, e dal 2003 al 2007 ha rivestito la carica di Poeta Laureato del Vermont.Grace Paley

L’abbiamo intervistata poco più di un anno prima che morisse, nella sua casa di Thetford. Arrivati all’ora stabilita, abbiamo bussato alla porta senza ricevere risposta. Abbiamo rifatto la ripida stradina sterrata e siamo tornati in città, dove abbiamo trovato suo marito Bob, nel giardino della casa del figlio. Lui ci ha chiesto se avessimo provato a spingere la porta: non era chiusa a chiave, Grace era in casa e stava facendo un riposino. «Entrate e svegliatela», ci ha detto. Siamo risaliti su per la collina, siamo entrati in casa e l’abbiamo svegliata. Da un anno era ammalata del cancro al seno che l’avrebbe uccisa, ma ha risposto alle nostre domande con la consueta ironia e prontezza di spirito. Nell’ultimo anno della sua vita, Grace Paley ha continuato a fare reading e apparizioni in pubblico, quando poteva. È rimasta una presenza vitale e una fonte di ispirazione.

 

Per gran parte della vita lei ha protestato contro la guerra. Che sensazione le dà trovarsi di nuovo in prima linea contro la guerra in Iraq?

Non ho mai creduto di poter cambiare davvero il mondo. Adesso che non sto tanto bene partecipo a molte meno iniziative di protesta. Ma potrei metterla così: credo che il mondo sia peggiore ma la gente sia migliore. Penso abbia a che fare con le rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta e con il lavoro che abbiamo fatto in quel periodo. La cosa importante da ricordare a proposito della guerra in Iraq è che tutto il mondo è sceso in piazza. Per la prima volta nella storia il mondo intero, non soltanto io e mio marito Bob, ma il mondo intero ha unito le forze per provare a fermare una guerra prima che iniziasse. Non era mai successo prima. Ho un libro che raccoglie le fotografie delle proteste in tutto il mondo, in Africa, in Asia, in Europa. In ogni paese la gente ha detto: «No, no, non fatelo, non fatelo». Qualsiasi cosa succeda ora, questo fatto resta. Con quelle proteste credo che la nostra causa sia progredita forse di qualche centimetro. Per un attimo ha brillato una luce, e quell’attimo è possibile prolungarlo. Ecco perché dico che ora come ora il mondo è un po’ peggiore, principalmente a causa di quello che sta facendo il nostro paese, ma la gente è migliore perché quasi ovunque ci sono persone che pensano davvero di avere la responsabilità di creare un mondo di pace e di vivere in maniera decente. Vedremo cosa riuscirà a fare la prossima generazione.

 

Lei ha detto spesso di essere una persona ottimista. Cosa pensa dell’impegno sociale? È ancora ottimista riguardo la possibilità di cambiare la società?

Sono ottimista per via di quel singolo momento in cui il mondo intero si è pronunciato contro la guerra. È un motivo di ottimismo per me, ma a parte questo nutro molta apprensione per lo stato del mondo. Quando si pensa alle cose che sono successe in Ruanda e nel Darfur, alle cose che ancora stanno succedendo nel Darfur, il quadro è scoraggiante. Il numero di morti violente è incredibile. Quello che sta succedendo in Iraq, dove si ammazzano gli uni con gli altri, è semplicemente spaventoso. Non sono né ottimista né pessimista: sono soltanto in ginocchio, sperando che le cose in qualche modo cambino.

 

Secondo lei è importante che gli scrittori si impegnino socialmente?

Gli scrittori? La mia idea è che anche gli idraulici dovrebbero fare qualcosa, ognuno dovrebbe fare qualcosa. Quando è iniziata la guerra in Iraq, Sam Hamill della Copper Canyon Press ha messo insieme una gran quantità di poeti. Prima che chiunque altro dicesse una sola parola, lui aveva convinto diecimila poeti a scrivere alla Casa Bianca dicendo: «Non andate in Iraq, non andateci». Gli scrittori erano in prima linea. Non ho niente da recriminare agli scrittori. Durante la guerra del Vietnam avevamo creato una cosa che si chiamava Angry Arts, organizzata da Bob e da diversi altri artisti. Per una settimana tutti gli artisti che si esibivano in concerto alla Town Hall e al Lincoln Center si fermavano durante lo spettacolo, si alzavano e davano le spalle al pubblico. Per vari minuti si stava tutti in silenzio, per lanciare il messaggio che eravamo contro la guerra. In tutta la città c’erano artisti che dipingevano murales, mentre i poeti giravano in furgone tra le strade leggendo le loro poesie. Gli artisti facevano la loro parte. Ma bisognerebbe coinvolgere tutti, non soltanto gli artisti. I falegnami, gli insegnanti, chiunque.

 

In un suo saggio, lei racconta la storia di quando nel 1969 andò ad Hanoi e uno dei giovani vietnamiti del gruppo rimase contrariato sentendo gli americani che criticavano il loro paese. Diceva: «Come fate a non amare il vostro paese? E allora Jefferson, Emerson, Whitman?» Cosa significa per lei trovare difficoltà ad amare il suo paese e come ha gestito questo sentimento nel corso degli anni?

Prima di tutto, a dire quelle cose era stato un ragazzotto un po’ stupido che stava nel nostro gruppo di americani. Me lo vedo ancora mentre dice: «Oh, è meglio che non ci vieni nel mio paese, è un paese razzista». Pensavo di morire. Non è che potevo alzarmi e dire che l’America non fosse un paese razzista, ma pensai: «Che idiota». Poi questo ragazzo, un giovane vietnamita, fa: «Ma sei matto, come fai a parlare così del tuo paese?» E così iniziammo ad approfondire il problema. Be’, io sono americana. Non provo un orgoglio patriottico né niente del genere, ma d’altro canto questo paese mi interessa molto. Mi interessa la sua storia, e credo che abbia portato delle idee preziose che hanno davvero trasformato un sacco di persone. Questo è vero senza dubbio se penso ai miei genitori e a tutti gli altri immigrati che sono venuti qui. Sono venuti per una ragione, e sono stati soddisfatti, in un modo o nell’altro.

Mia madre non si è mai dimenticata di quando fece il viaggio in nave nel 1905. In Russia ci furono dei pogrom terribili nel 1904 e nel 1905. Erano iniziati negli anni Novanta dell’Ottocento, una cosa bruttissima. È uscito un articolo del Jewish Forward su questo, un paio d’anni fa. Riportava i resoconti del 1905, in cui si diceva: «Nelle città e nei villaggi, il massacro è stato immenso». Così i miei genitori emigrarono in questo paese. Mio padre si mise subito a studiare, imparò l’italiano e l’inglese e diventò dottore, poi in vecchiaia, dopo essere andato in pensione, si dedicò alla pittura. Mio figlio diceva: «Il nonno è un artista in congedo dalla medicina». Se la cavarono bene. Non tutti gli immigrati se la sono cavata bene allo stesso modo, ma se parli con gli italiani, gli irlandesi o i serbo-croati, il paese li ha accolti. Adesso gli immigrati li trattiamo con ostilità perché sono una classe povera e poco istruita. La cosa brutta è che i vecchi immigrati non prendono le difese dei nuovi – gli ispanici che arrivano dal confine messicano e altri ancora. Ci sono molte culture diverse in America, il che lo rende un paese molto interessante.

 

Nel suo libro di saggi, Just As I Thought, lei descrive i suoi genitori come «ebrei atei e socialisti». Quanto è stata influenzata dalle loro opinioni?

Sì, i miei la pensavano così, ma io accompagnavo mia nonna in sinagoga. Lei non era atea, anche se non era particolarmente religiosa. Ma quello dei miei genitori sembrava soltanto il modo normale di vivere. Io sono cresciuta nel Bronx. I miei ricordi risalgono alla Grande Depressione, i tardi anni Trenta. La gente del mio quartiere all’epoca non lavorava. Gli uomini erano senza lavoro, mentre mio padre era il dottore del quartiere. Per cui rispetto a tutti i miei amici io ero ricca. Ho avuto un’infanzia molto felice perché le strade di New York sono meravigliose per i bambini. In strada un bambino è libero. D’estate si poteva restare a giocare fuori fino alle dieci di sera. Tua madre, o la madre di qualcun altro, si affacciava alla finestra e gridava: «Forza, tornate a casa». A volte tornavi subito, a volte passava un’altra mezz’oretta. C’era sempre qualcuno in strada. Sempre altri bambini con cui giocare.

In famiglia a tavola si parlava di politica. Era un argomento normale di conversazione. Papà leggeva il giornale e diceva: «Miseriaccia». Con la nonna parlavano in russo e lei rispondeva in yiddish oppure in russo, ma quando ero piccola io loro parlavano inglese a casa, anche se il russo lo leggevano. Mio padre comprava un giornale socialista russo, non so quale.

 

Alla fine di molti suoi racconti si ha la sensazione che la vita, semplicemente, vada avanti. Non c’è un finale particolare. Il personaggio di Zagrowsky dice: «Ve lo dico io cosa succede: la vita, succede. Voi avete la vostra opinione. Io ho la mia. La vita no, non ha opinioni».

Era così nella mia famiglia. A cena, se eravamo al completo, c’erano mio padre e mia madre, che erano socialisti democratici e molto arrabbiati con l’Unione Sovietica; poi c’era mia zia, comunista, e l’altra zia che era sionista. Le differenze di opinioni erano forti. Non la smettevano mai di parlare, e intanto la vita procedeva per conto suo fregandosene.

Mi ricordo ancora mia madre, a tavola, che legge il giornale, io ero soltanto una ragazzina. A quanto pare il partito nazista si è appena consolidato e Hitler è al potere. Deve essere il 1939 o giù di lì, forse un po’ prima. Mamma dice a papà: «Guarda qui, Zenia, sta cominciando di nuovo». Quelle parole – «sta cominciando di nuovo» – mi risuonano nelle orecchie da tutta la vita. Sta cominciando di nuovo. Quanta paura c’è in quelle parole. Non avendo mai provato davvero sulla mia pelle il pregiudizio, non me le scordo più.

Possiedo delle lettere, del 1912, 1914, scritte da una donna a mia zia Yuba. La donna scrive: «Non so cosa fare con i ragazzi. Non so cosa fare, con tutti e due. Si sono messi in testa delle idee balzane. Andranno in non so quale fattoria, stanno prendendo lezioni per imparare a fare i contadini. Vogliono andare in Palestina. Io gli dico che non possono, che non devono, e loro mi rispondono: “Ma qui cosa abbiamo? Non abbiamo nulla qui”». Hanno ragione, commenta lei, qui non hanno niente. Non c’è niente per loro qui e perciò, dice lei, devo lasciargli fare quello che vogliono. Ma perché vogliono fare i contadini? La donna è inorridita. Che gli passa per la testa a questi ragazzi? Vogliono fare i contadini? E in Palestina, per giunta?

 

Nei suoi racconti c’è una voce molto forte, un tono quasi parlato. Sembra che lei sia seduta lì e ci stia raccontando una storia. Come ha trovato questa voce?

Ho letto molto. Tra i poeti, più di tutti mi piaceva W.H. Auden. Adoravo gli scrittori inglesi e i romanzi con cui sono cresciuta, Twain, Dickens e via dicendo. Non sono stata influenzata da Whitman, per esempio, o da altri del genere. La sua libertà non era la mia, per cui non mi riguardava. Ma Saul Bellow aveva già iniziato a scrivere. Bellow ha liberato la voce ebraica in modi che io neanche capivo, ma i suoi libri parlavano solo di uomini. Eppure, per gli ebrei che vanno matti per la lingua inglese, è stato lui il punto di riferimento.

Mio padre deve averci raccontato le storie della Bibbia, perché fin dalla tenera età erano instillate dentro di me delle storie bibliche, e non so da dove altro potessero provenire. Non tanto da mia nonna. Sono molto interessata alla Bibbia. Quella che conosco è la versione di re Giacomo, che è anche una pagina di grande letteratura inglese. Credo che abbia avuto un effetto su di me, dato che la leggevo molto. Lo stile della Bibbia di re Giacomo lo amo più di ogni altra cosa. Sono sempre stata una lettrice forte, e leggevo buona letteratura. Ci tengo a sottolinearlo perché agli studenti non faccio che dire: «Dovete leggere». Quella inglese è una grande tradizione letteraria. Siamo molto fortunati. Abbiamo una grande lingua, l’inglese, che è estremamente ricettiva nei confronti delle altre lingue. L’inglese assorbe tutto. I francesi hanno regole secondo cui è vietato dire questo, è vietato dire quest’altro, mentre in inglese possiamo dire il cazzo che ci pare.

 

Lei ha iniziato a scrivere prosa relativamente tardi. Prima si era dedicata alla poesia. Cosa l’ha portata alla prosa?

Be’, ti dirò, mi è successa una cosa strana. Pensavo che mi sarebbe piaciuto provare a scrivere racconti, ed è venuto fuori che avevo un bel po’ di materiale, cosa di cui inizialmente non mi rendevo conto. All’inizio non avevo altro che il mio primo racconto. Quando l’ho finito ero stupita. Non ci potevo credere. All’improvviso mi ritrovavo con un enorme materiale che riguardava la vita delle donne. Questo perché avevo trascorso gran parte delle mie giornate con donne e bambini, come non mi era mai capitato prima, principalmente al parco di Washington Square.

Vedi, niente succede senza un movimento politico. Si dà il caso che quando ho iniziato a scrivere prosa, stava nascendo il movimento delle donne. Io non lo sapevo. Succede così: ti ritrovi a essere parte di qualcosa senza neanche saperlo. Il movimento del Black Power ha avuto una letteratura che l’ha accompagnato, che l’ha sostenuto. Insomma, il movimento femminile ha iniziato a svilupparsi. Né io né Tillie Olsen lo sapevamo, ma facevamo parte di un movimento. Ho iniziato a interessarmi sempre di più alla vita delle donne, ed era un argomento che non potevo affrontare scrivendo poesie. Non sapevo come fare. Adesso so come si fa, ma all’epoca no. Quindi avevo delle storie e ho iniziato a scriverle. Le ho scritte un po’ alla volta, nell’arco di quindici, vent’anni. Non era granché, ma era quella la voce di base che avevo, e all’epoca era normale scrivere con una voce del genere anche se io non lo sapevo. Voglio dire che non lo facevo di proposito. Ho provato a scrivere da un punto di vista maschile. Tra i miei racconti ce ne sono alcuni scritti dal punto di vista di un uomo, o di persone di un altro colore, di un’altra razza, ma fondamentalmente il mio argomento era la vita delle donne, e in questo ero in linea con i tempi. Tutto qui.

 

Aveva la preoccupazione che, scrivendo storie di donne, il suo lavoro non venisse preso sul serio?

Mi ha molto sorpresa essere accolta così bene. In base alla mia esperienza trovavo interessante la scrittura maschile, e pensavo davvero che per la maggior parte della gente le storie di donne avessero un’attrattiva molto limitata. Ma non potevo farci niente: in guerra non ci ero stata, e non avevo fatto cose da uomini. Avevo vissuto una vita da donna ed è di quello che ho scritto.

Voglio dirti una cosa interessante, almeno per me. Le poesie che scrivevo prima di darmi ai racconti, alcune poesie, erano molto letterarie. Ero una grande lettrice. Ero anche una grande imitatrice. C’era un che di britannico nella mia poesia. Il fatto che venissi dal Bronx era irrilevante. Quando ho iniziato con i racconti, avevo la fortuna di aver scritto poesia, perciò la lingua ce l’avevo già in bocca. D’altro canto, trattandosi di prosa, era una cosa molto più libera. Questo ha avuto un grande effetto su di me quando ho ricominciato a scrivere poesie. La poesia ha migliorato la mia prosa, ma allo stesso modo la prosa è stata un bene per la mia poesia. Ha tolto dei freni e mi ha permesso di essere più coerente con me stessa.

 

Quando ha scritto per la prima volta una storia su Faith, che compare in tanti suoi racconti, sapeva che avrebbe continuato a usare lo stesso personaggio? C’è un motivo particolare per cui ha scelto il nome Faith?

No, non sapevo che avrei continuato a usare lo stesso personaggio. Non ci crederai, ma sono una a cui piace scherzare, per cui mi è venuta quest’idea folle di mettere nei miei racconti una famiglia i cui membri si chiamavano Faith, Hope e Charlie. Era un’idea scema. Non ha mai funzionato, ma al personaggio è rimasto il nome di Faith.

 

Come mai ha continuato a scrivere racconti su Faith?

Perché era una gran lavoratrice. Era lei a fare tutto il lavoro; era lei a raccontare la storia. Sembrava una tipa in gamba. Aveva senso dell’umorismo. Ha lavorato per me. Faith non sono io: la sua vita è completamente diversa dalla mia. I miei figli hanno vissuto con il padre fino ai vent’anni, e io non ero una madre single, mai stata, nemmeno per cinque minuti. Quindi la vita di Faith non è la mia, ma avrebbe potuto essere una delle mie amiche.

 

Ha dei consigli da dare agli scrittori più giovani?

Cercate di spendere poco. Non vivete con chi non sostiene il vostro lavoro. È fondamentale. E leggete tanto. Non abbiate paura di leggere o di essere influenzati da quello che leggete. Vi influenza di più la voce dell’infanzia che non qualsiasi poeta stiate leggendo. L’ultimo consiglio è di tenere sempre una penna e un foglio di carta in tasca, soprattutto se siete dei poeti. Ma anche se siete scrittori di prosa, dovete mettere le cose per iscritto appena vi vengono in mente, altrimenti vi sfuggiranno e saranno perse per sempre. Naturalmente in molti casi si tratta di cose stupide, per cui poco male. Ma a volte si tratta proprio della cosa che risolve il problema del racconto o della poesia a cui state lavorando, e in quel caso meglio tenere carta e penna in tasca. Una volta ho dato questo grande consiglio durante una conferenza, e poi tre ore dopo ho detto a uno studente che mi era piaciuto molto il suo lavoro e gli ho chiesto come potevo contattarlo. Lui voleva dettarmi il nome e l’indirizzo. Mi sono cercata in tasca, e non avevo né una penna né un pezzo di carta.

 

L’ho sentita parlare qualche anno fa, diceva che nel caso di alcune storie aveva impiegato trent’anni per trovare una chiave per raccontarle. Cos’è che alla fine le ha permesso di scriverle e perché certe volte ci vuole così tanto?

Mah, è il mio carattere. Lascio perdere, finché non succede da sé. Non mi va di forzare troppo le cose. A che pro? Cioè, non è che ci faccio chissà quanti soldi, quando finisco un racconto sono fortunata se qualcuno lo pubblica. Che sia una rivista che paga o una che non paga non mi cambia molto. Non sento nessuna pressione, da questo punto di vista. I guadagni mi arrivano più che altro dalle conferenze. Con la scrittura non ho mai fatto tanti soldi in ogni caso.

Faccio di tutto per essere autentica. Credo sia questa l’essenza della letteratura: una battaglia per la verità. È una battaglia per ciò che non si capisce. Fintanto che non capisco le cose riesco a scrivere, ma una volta che ho capito tutto non ci riesco più. Ci sono cose che cerchi di capire. È a questo che serve la scrittura. Quello che mi ha permesso di continuare a scrivere racconti è che a un certo punto ho trovato la forma che potevo usare per provare a capire, tramite i dialoghi, le persone con cui vivevo, le donne che conoscevo, e tentare di trasformare tutto ciò in una storia.

 

Lei ha detto che il poeta parla al mondo, mentre l’autore di racconti fa in modo che sia il mondo a parlargli. Può spiegarcelo meglio?

Quando scrivo prosa faccio sì che il mondo mi parli, in modo da comprenderlo meglio, ma è lo stesso con la poesia: parlare al mondo ma anche fare in modo che il mondo ci parli. Scrivendo sia poesia che prosa, si passa da una non comprensione a un tentativo di comprensione. Nella prosa, fai in modo che le persone parlino e capiscano le cose al posto tuo, mentre in poesia sei da solo. Per cui in poesia in realtà parli più che altro a te stesso, ti rivolgi a te stesso e provi a capire qualcosa. Ma entrambe le voci, la prosa e la poesia, sono misteriose. Bisogna essere ascoltatori attentissimi per fare gli scrittori. Io sono una che parla parecchio, ma ascolto molto gli altri. Le persone mi interessano, ma mi piacciono anche. Da questo punto di vista sono molto fortunata perché c’è tanta gente amareggiata, musona, che scrive libri.

 

La scrittura le consente di avere dei momenti di comprensione?

Sono esperienze che capitano se scrivi molto spesso. Non è una cosa consapevole, ma a volte ci sono dei personaggi che parlano e lo scopo della loro conversazione è farti capire qualcosa su di loro, il che può avvenire senza che tu te ne renda conto. In un certo senso, si continua a scrivere per capire. Non è che hai l’illuminazione e dici: «Ah ecco, ho capito tutto, ora il racconto è finito». Continui a farti domande, per cui ti resta un senso di stupore e di mistero.

Anche solo guardare la campagna qua fuori, per me è stupefacente. Quando ti affacci dalla finestra ti trovi davanti uno spettacolo stupefacente, ma la stanno uccidendo, la campagna. La gente non capisce quello che sta subendo. In altre parti del mondo sembra che lo capiscano meglio che da noi. Noi sembriamo non renderci conto che la terra viene rovinata dai veleni e l’aria è diventata quasi irrespirabile. In America tutti si sforzano di essere sempre felici e di non preoccuparsi e di non capire e di non fare niente per migliorare la situazione.

Grace Paley

Come vede il futuro di questo paese?

Siamo alle soglie di un’elezione importante, e ci penso parecchio. Questo governo [l’amministrazione di George W. Bush, n.d.t.] è molto pericoloso, non semplicemente un cattivo governo, ma spaventoso. Non ricordo di aver mai visto niente del genere. Reagan non mi piaceva per nulla, ha fatto cose terribili, ma non era paragonabile a questa amministrazione.

Voglio che la gente guardi il mondo e veda cosa gli sta succedendo e faccia qualcosa. Questo pianeta è talmente adorabile. È talmente vario e adorabile, e questo vale anche per le parti del mondo che non ho mai visto, e io ne ho visto più della maggior parte della gente. È incredibile, basta pensare a quello che i nostri occhi possono vedere o ai modi in cui vivono i popoli della terra, ma è destinato a finire se non convinciamo i nostri leader a fare attenzione.

Gli esseri umani discendono da qualche microscopica ameba o paramecio. L’ho imparato a biologia. Il genere umano discende da milioni e milioni di anni di evoluzione, il che è meraviglioso. Ho una grande ammirazione per quello che sono diventati gli uomini. Ci abbiamo messo un milione di anni per imparare a comunicare fra noi, e ci siamo riusciti. Ci abbiamo messo un altro milione di anni per lavorare gli uni con gli altri, e ci siamo riusciti. Credo che il genere umano sia notevole. Se solo sapesse essere gentile con gli altri animali, sarebbe ancora meglio. Nel frattempo, si comporta come qualsiasi altro animale. È violento e consuma le altre specie. Questo significa che dovremmo essere tutti vegetariani. Be’ sì, in un certo senso è questo che sto dicendo. Finché non smetteremo di fare violenza agli altri esseri umani e alle altre creature viventi, non raggiungeremo la perfezione.

© Ilya Kaminsky and Katherine Towler, 2008. Tutti i diritti riservati.

Condividi