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Viva la musica! di Andrés Caicedo

Andrés Caicedo Andrés Caicedo, Autori, Musica, SUR

Oggi lo scrittore colombiano Andrés Caicedo avrebbe compiuto 65 anni. Lo ricordiamo pubblicando un estratto del suo travolgente romanzo Viva la musica!, di cui abbiamo già parlato qui e qui. Buona lettura!

di Andrés Caicedo
traduzione di Raul Schenardi

Sono bionda. Biondissima. Sono così bionda che mi dicono: «Bionda, devi solo sfiorarmi la faccia con quei capelli e mi libererai dall’ombra che m’insegue». Non era un’ombra ma la morte a solcargli la faccia, e io ebbi paura di perdere la mia luminosità.

Se in questo momento passasse qualcuno e vedesse i miei capelli non ne coglierebbe tutta la bellezza. Bisogna considerare che la sera, anche se è appena all’inizio, cala insieme a una strana nebbia. E poi vi parlo di un’altra epoca e… insomma, i vagabondaggi e le cattive abitudini tolgono luminosità persino ai miei capelli.

Comunque mi dicevano: «Piccola, sarò breve: i tuoi capelli sono fantastici!» E un tipo strano, prematuramente calvo: «Lillian Gish aveva i capelli uguali ai tuoi», e io mi domandavo: «E chi sarà mai questa? Una cantante famosa?» Solo da poco sono venuta a sapere che era una diva del cinema muto. Per tutto questo tempo me la sono immaginata con un mucchio di collane mentre cantava, tutta bionda, di fronte a un pubblico in delirio. Che roba le lacune nella cultura.

A parte me, tutti ne sapevano di musica. Io avevo per la testa mille altre cose. Ero una brava ragazza. Ma no, quale brava ragazza, con mia mamma facevo sempre i capricci, disubbidivo e piantavo grane. Però leggevo i miei libri e ricordo benissimo le tre riunioni per studiare Il capitale, eravamo io, Armando il Grillo (lo chiamavano Grillo per gli occhi sporgenti che faceva scorrere perplesso sulle mie ginocchia) e Antonio Manríquez. Furono tre mattinate, quelle delle riunioni, e vi giuro che capii tutto, tutta la cultura della mia terra, integralmente. Ma non voglio prendere l’abitudine di fissarmi su queste cose: un conto è la memoria, altra storia è desiderare di ricordare volentieri una simile fame, una simile fedeltà.

Voglio cominciare il mio racconto dal primo giorno in cui non mi presentai a quelle riunioni, che fu anche, in fin dei conti, il momento del mio ingresso nel mondo della musica, degli ascoltatori della radio e del ballo. Racconterò con dovizia di particolari e vi garantisco, egregi lettori, che non vi annoierò: so che rimarrete affascinati.

Quel giorno mi svegliai tardissimo e aprire gli occhi non mi diede energia. Però mi dissi: «Devi solo posare i piedi sul pavimento freddo e vedrai che arrivi in orario». Mentivo a me stessa. La riunione era fissata per le nove e saranno state le… era già mezzogiorno. Misi giù i miei piedini, così bianchi, così piccoli, e rabbrividendo capii che potevo camminare sulle mattonelle. Allora mi avviai contenta, a piccoli passi, per arrivare solo alla finestra.

Scostai con forza le tendine e allargando le braccia pensai che ero una donna intraprendente, come dire che potevo lavorare anche la terra, volendo. Invece non lo ero. Dopo le tendine, davanti a me c’era la veneziana. È vero che Venezia porta alla morte? Lo dico perché l’ho sentito (ora non più) in vecchie canzoni. Potevo tirare le cordicelle della veneziana, come il marinaio che issa le vele, e lasciar entrare il nuovo giorno in tutto il suo splendore. Ma non lo feci. Mi avvicinai con uno spostamento minimo, che mi sembrò comunque maldestro, e sbirciai fuori attraverso uno spiraglio della veneziana: oh, che nostalgia della serata appena trascorsa: il colore del cielo, il vento che c’era, e prenderlo in faccia, come piace a me. È questo che rinforza e profuma i miei capelli.

Ma non l’inizio di una nuova giornata. Vidi pennellate grossolane e grumi nel cielo, e le montagne sembravano le ginocchia di un negro. Maledissi lo spiraglio, spaventata e abbattuta. Perché? Era così presto! Pensai: «Stanotte hanno incendiato le montagne e sono rimasti solo un po’ di peli ricci».

Le mie gambe erano bianchissime, ma non di quel brutto bianco volgare, e dietro le ginocchia avevo qualche venuzza blu. Ieri il dottore mi ha detto che quelle venuzze di cui andavo tanto fiera sono nientemeno che un inizio di varici.

Tornando a letto pensai: «Quanto manca prima che venga sera?» Non ne avevo idea. Potevo urlare per chiedere l’ora alla domestica, e invece no. Potevo richiudere gli occhi e perdermi, macché: ormai ero incavolata e piena di rabbia. Non lo nego, ci stavo prendendo gusto a dormire sempre più a lungo, ma come potevo farlo con orari così rigorosi?

Allora gridai se qualcuno mi aveva cercata, e naturalmente risposero subito: «Sì, piccola, i ragazzi che studiano con te».

Affondai la faccia nel cuscino e m’impregnai coscientemente il corpo, liscio e scivoloso come un pesce senza squame, dell’umidità rimasta fra le lenzuola, non so quanto pulite. Pentita, mi vergognai.

 

Era la prima volta che mancavo alla lettura del Capitale e non ci tornai più. Da quel momento mi perseguita la vergogna mattutina che vorrebbe farmi cancellare e negare il modo favoloso in cui ho trascorso la notte intera, tutte le facce nuove… Be’, questo succedeva all’inizio, ormai non s’incontra più gente nuova, non crediate, sono sempre gli stessi, le stesse facce, e solo due di loro mi piacciono: uno è un ballerino esperto con un paio di baffi da macho messicano, e io gli dico: «Ti fanno sembrare più vecchio», al che lui sorride mostrando i denti grandi, belli, e ribatte: «E perché essere giovane un’altra volta? Come se non ne avessi viste anche troppe per arrivare alla mia bella età. Quando esprimo un parere su questa vita non mi lascio influenzare dai miei gusti personali. Parlo per concetti, capisci? Il mio pensiero ormai non cambia più, ma solo sulle cose fondamentali, si capisce, perché per quanto riguarda il sale della vita chi si arrischia a dire qualcosa? Altrimenti come spieghi che continuo a venirti a trovare tutte le sere, piccola», perché non hanno mai smesso di chiamarmi piccola. Dell’altro che mi piace meglio se non parlo, è un ladruncolo, uno di quei tipi magri magri che portano ancora le magliette nere.

La vergogna, dicevo. Però io la combatto e mi dico: «Non ha senso», no, perché la notte me la sono goduta, l’ho tenuta a bada e dopo averla costretta alla resa me la sono scolata fino in fondo, ma attenzione: io non sono come gli uomini, che alla fine crollano. Mal che vada finisco tutta scarmigliata, il che mi dà l’aria di una che se ne va in giro sola soletta per il mondo, per queste strade. E vi giuro che prima di chiudere gli occhi penso: «Questa sì che è vita». E dormo bene. Però arriva il nuovo giorno e mi dice (credo sia per via del sole anormale degli ultimi due mesi): «Cambia vita».

Cosa posso rispondere a questa coscienza? Dovrei cambiarla proprio adesso che sono diventata esperta? Quella maledetta però, me la immagino tutta vestita di nero e con il velo, è talmente fastidiosa che ho persino dei rimorsi e mi propongo di rinsavire. Fa lo stesso: non appena arrivano le sei di sera i buoni propositi svaniscono. Sono convinta che è il sole a non andare d’accordo con me. Ho provato a non uscire, a starmene in camera mia a pensare. Macché, non funziona. Esco, stordita ma del tutto innocente e piena di buone intenzioni, per mischiarmi alla calca che va a fare compere, alle signore, a quei bravi ragazzi dei fattorini in bicicletta, e una volta per poco non mi sono messa a gridare: «Vado matta per la gente!» Ma non l’ho fatto. Erano già le sei e mi sono lanciata nella serata. Babalú cammina al mio fianco.

Questo è successo una settimana fa, sabato scorso appena. Ma non voglio anticipare troppo, sennò finiamo per cominciare dalla coda, che è difficile da acchiappare, colpisce e si attorciglia. Vorrei che l’egregio lettore seguisse la mia velocità, che è carica di energia.

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