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«Vedo il Messico come in preda alle convulsioni», intervista ad Antonio Ortuño

Mónica Maristain Autori, Interviste, SUR

Di scrittura, politica e immigrazione, l’autore della Fila indiana Antonio Ortuño conversa con Mónica Maristain. L’intervista, uscita originariamente sulla rivista SinEmbargo, viene qui riprodotta su gentile concessione dell’autrice.

di Mónica Maristain
traduzione di Chiara Gualandrini

La biografia di Antonio Ortuño dice che è figlio di immigrati, che è nato a Guadalajara nel 1976, ma anche che rappresenta oggi uno dei giovani scrittori più talentuosi della letteratura messicana, con all’attivo romanzi del calibro di El buscador de cabezas (2006) – definito dalla rivista Reforma il libro dell’anno –, Risorse umane (pubblicato nel 2008 da Neri Pozza), Ánima (2011) e La fila indiana (SUR, 2017).

Ortuño è autore anche di raccolte di racconti: La señora Rojo, El jardín japonés (e il più recente La vaga ambición, che gli è valso il premio Ribera del Duero per il racconto n.d.r.). Con una voce letteraria che ogni volta si ispira un po’ di più alla tradizione nazionale, tratta temi come l’immigrazione e la frontiera, che racconta con humour, ironia, precisione stilistica e molta, molta immaginazione.

Non è totalmente consapevole di come e quando i suoi libri siano entrati a far parte di quel filone narrativo in cui si esprime un Messico profondo e quasi rulfiano, o «sadiano», direbbe lui che di Daniel Sada (1953-2011), il compianto autore, fra gli altri, di Porque es mentira la verdad nunca se sabe, è stato allievo.

«Sono figlio di immigrati e mi sono sempre sentito un po’ fuori posto», si difende Antonio con il suo vocione, nonostante stia quasi per terminare Méjico, un romanzo in cui il nome del suo paese si scrive con la j e da cui non possiamo che aspettarci più di un tocco di colore, o tricolore, vernacolo.

In quest’intervista il giovane autore parla di letteratura, il tema che più lo appassiona, e di Messico, del destino tortuoso di questa nazione e, come sempre, la chiacchierata è di quelle che si ricordano.

La fila indiana ti ha dato molte soddisfazioni e ti ha toccato nel profondo, tanto da lasciare il segno vero?

Sì, il processo di scrittura e promozione mi hanno fatto entrare in contatto una realtà terribile, che è solo una delle tante porte sugli orrori del Messico, ovvero le condizioni dei migranti. E questo processo non si è concluso, la scorsa settimana, per esempio, c’è stata un’ondata di agressioni ai migranti, che non si concentrano più solo nel sud-est del paese ma anche in luoghi come Sonora o Tamaulipas.

Nel tuo romanzo tratti un tema che va molto più in profondità rispetto a quella che è definita letteratura «narco».

Presto uscirà il mio nuovo romanzo, e non ha niente a che vedere con La fila indiana. Credo che la letteratura ti dia proprio la possibilità di ficcare il naso fra i temi più disparati, di esplorare diversi linguaggi, ma ciò che è davvero interessante è scrivere partendo da zero ogni volta, con un altro punto di vista. Non potrei mai scrivere voltando le spalle al Messico, voltando le spalle a quello che sta succedendo.

Il governo ha coperto la strage di Ayotzinapa e, fra le altre cose, ha lasciato in ultimissimo piano l’argomento dei migranti, che sono scomparsi del tutto dal pubblico interesse.

Sì, assolutamente, anche se purtroppo è sempre stato il destino dei migranti centroamericani. Saranno sempre gli ultimi degli ultimi. È un tema che non rientra nelle campagne elettorali e la stampa se ne interessa solo se si tratta di crimini di massa, i massacri più violenti. È un argomento del tutto invisibile e che ritorna ciclicamente a immergersi in questa invisibilità.

Come vedi il tuo paese?

Come lo vede una persona in preda alle convulsioni. Credo che in questo momento la vita pubblica e sociale in Messico sia completamente incoerente e oserei dire anche quella personale. Viviamo nella paura e chi non ha paura è semplicemente incosciente. Non si può paragonare la preoccupazione di chi vive a Tamaulipas, per esempio, che è un inferno in terra, a quella di chi vive a Guadalajara, dove la violenza arriva di punto in bianco, come il giorno in cui i gruppi ribelli hanno creato dei posti di blocco in città e sequestrato veicoli, o come ieri, che è stato ucciso un dirigente del Partito Rivoluzionario Istituzionale in una delle strade più grandi e trafficate della città. Jalisco è il secondo stato messicano per numero di desaparecidos, il che significa che nessuno può sentirsi al sicuro in questo paese. E poi, continua a essere uno stato dilaniato dal conservatorismo recalcitrante.

Eppure si tratta pur sempre una società istruita, con grandi aspirazioni…

Sì, ed è il paese dei paradossi, come il caso di Zapopan, dove il giovane politico indipendente Pedro Kumamoto partecipa alle elezioni senza l’appoggio di nessun partito e vince in un’area dove all’indomani della sua vittoria compaiono striscioni degli abitanti che chiedono alla comunità di non sfamare i migranti, per non imbruttire la zona.

Come ci si sente far parte della tradizione letteraria jalicense?

Be’, non mi sono mai sentito parte di questa tradizione letteraria, sono figlio di immigrati, i miei genitori non sono nati a Guadalajara. Mia madre era spagnola, figlia di un repubblicano anarchico, e anche mio padre è di origine spagnola, suo nonno era un minatore basco morto molto giovane e mio padre ha trascorso molti anni negli Stati Uniti. Ciò che intendo dire è che non sono cresciuto leggendo Juan Rulfo o Juan José Arreola, i loro libri non erano nella biblioteca di famiglia. Quando ero un adolescente e andavo a scuola non mi piaceva per niente mi obbligassero a leggere questi autori. Per molti anni sono stato un eccezione, l’unico jalicense a non aver letto i due libri di Rulfo, e quando poi li ho letti ovviamente ho scoperto un grande scrittore, questo è fuori discussione. Anche Arreola l’ho letto tardi. Sono grandi scrittori ma non sento di far parte della loro stessa corrente letteraria. Lo scrittore che è stato fondamentale per la mia formazione è Jorge Ibargüengoitia, e nonostante Guanajuato sia una città con sfumature molto diverse da Guadalajara, è molto più simile alla mia terra che a Città del Messico, per esempio. Se sei uno scrittore messicano e scrivi del tuo paese non puoi non leggere Martín Guzmán, Rubén Salazar Mallén, José Revueltas…

A volte si ha la sensazione che ci sia una letteratura nelle zone interne molto più ricca e propositiva di quella che si può trovare in città.

Raccontare Cttà del Messico è difficile, è un organismo gigantesco e molte volte gli scrittori si sentono obbligati a virare – paradossalmente – verso il «regionalismo urbano», raccontando storie che si svolgono nei quartieri di Roma, Condensa, Coyocán e pochi altri. Non sono il centro del mondo e non è certo lì che succedono le cose più interessanti. Un luogo comune dice che i romanzieri parlano male dei poeti, io leggo moltissima poesia messicana, mio fratello (Ángel Ortuño) è poeta, e penso che nella mappa della letteratura contemporanea messicana debbano essere inclusi José Eugenio Sánchez, Julián Herbert, Xitlálitl Rodríguez Mendoza, Eduardo Padilla de León, che è illuminante, e molti altri. Dopo la scomparsa dei grandi maschi alfa della letteratura, che vivevano tutti in un raggio di quattro isolati e cenavano con i segretari di stato, credo che la letteratura delle zone interne sia più accessibile.

Cosa pensi della letteratura latinoamericana?

Ciascuno deve essere libero di leggere ciò che vuole, ma penso anche che non sia necessario leggere gli scrittori statunitensi di moda quando si ha una letteratura continentale così robusta e variegata. Ci sono il colombiano Juan Cárdenas, il peruviano Jeremías Gamboa, l’argentino Hernán Ronsino… e molti altri…

Di cosa ti occupi al momento?

Presto uscirà il mio nuovo romanzo, si chiama Méjico, con la j, e racconta due storie, quella di due anarchici che arrivano in Messico fuggendo da tutto e quella di un messicano figlio di spagnoli che deve tornare a vivere in Spagna a causa del clima violento che c’è a Guadalajara. La presenteremo alla FIL e ho la sensazione che molti lo troveranno un romanzo scomodo. So che il conflitto Messico-Spagna non si risolverà mai, ma al momento mi trovo in questo cortocircuito.

© Mónica Maristain, 2015. Tutti i diritti riservati.

 

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