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Oltre la canzone pop: Court and Spark di Joni Mitchell

Rick Moody BIGSUR, Ritratti

Questo pezzo è apparso all’interno di una più ampia conversazione su Joni Mitchell  pubblicata da The Rumpus, e viene qui tradotto per gentile concessione dell’autore.

di Rick Moody
traduzione di Dario Matrone

Nella mia vita ci sono stati soltanto pochi album che mi hanno segnato perché non assomigliavano a nessun’altra cosa che avessi sentito prima, e perché ero impreparato alla novità e alla spaventosa originalità della musica che contenevano. Nell’elenco farei rientrare, ad esempio, What’s Going On? di Marvin Gaye, Are You Experienced? della Jimi Hendrix Experience, Dub Housing dei Pere Ubu, Metal Box dei Public Image Limited, Astral Weeks di Van Morrison, Music for Airports di Brian Eno, Cut delle Slits, Dolmen Music di Meredith Monk e Music for Eighteen Musicians di Steve Reich. Sono dischi che ti obbligano a trovare nuovi modi di ascoltare, e a fare i conti con l’esperienza dell’ascolto, a considerare l’ascolto in modo diverso. In un album davvero rivoluzionario la forma è inscindibile dal significato, e da quel momento in poi nessuna esperienza d’ascolto sarà immune dall’ambizione che esprime, né dal sentimento che contiene.

Nello stesso elenco per me c’è anche Court and Spark. Sebbene Joni Mitchell abbia fatto molti grandi dischi (Blue è certamente un capolavoro, ma io adoro anche Ladies of the Canyon, Hejira, The Hissing of Summer Lawns, For the Roses, e perfino Mingus), Court and Spark è un album in cui l’enorme salto in termini di ambizione, di suono, di scrittura, è inequivocabile, indelebile, potentissimo, e sembra imporre proprio una differenza materiale nell’oggetto delle canzoni. Sono canzoni che, in un certo senso, hanno a che fare con la musica pop, con la condizione in cui versa la musica pop e con la posizione della Mitchell in quel contesto, e rivoluzionano la forma per poter dimostrare gli intenti dell’artista. Se il termine cantautrice è in qualche modo impensabile senza Joni Mitchell, Court and Spark è il momento in cui la Mitchell inizia a smantellare le implicazioni sessiste della parola e a superare il modello della semplice cantante confessionale. Vuole agire e non essere agita, vuole osservare e rifrangere le cose come una lente, e intende prendere le distanze sia dai cliché melodici e ritmici della canzone pop così come si presentava nel 1974, sia dal modello confessionale che lei stessa aveva incarnato nei suoi dischi precedenti.

Dal punto di vista musicale, questo mutato atteggiamento si traduce nell’aggiunta di elementi derivati dal jazz. È difficile immaginare come avrebbero potuto esserci artisti rispettati come Tom Waits, Rickie Lee Jones, o anche gli Steely Dan dell’ultimo periodo senza l’esempio di Court and Spark, senza un’idea di come il rock e il folk (e il pop, se si accetta il termine) si potessero costringere a un incontro con il vocabolario armonico del jazz, con la sua allegria e raffinatezza e le sue modalità non occidentali. Vista la scena del rock e del folk-rock nei primi anni Settanta, soprattutto in California (Linda Ronstadt, gli Eagles, gli America, Seals and Crofts, Warren Zevon, Jackson Browne, Crosby Stills & Nash), non si sa bene da dove Joni Mitchell abbia attinto questa nuova serie di strumenti e di impostazioni musicali e cosa l’abbia indotta a credere che fosse una strada percorribile, eppure ha fatto quel che ha fatto e in tal modo ha dato vita all’album di maggior successo della sua carriera.

 

Free Man in Paris

https://www.youtube.com/watch?v=sasdHZXNagI

 

La prima canzone di Court and Spark che ascoltai all’epoca era «Help Me», credo, perché la passavano alla radio, ma subito dopo veniva «Free Man in Paris», il secondo singolo tratto dall’lp, soprattutto sulle radio di Adult Oriented Rock nate da poco. Ricordo di aver tentato di seguirne il racconto, e le circonvoluzioni, perciò è da questo che vorrei partire.

https://www.youtube.com/watch?v=KiKrk2Jcx8U

«Free Man» la considero come una citazione, nella sua interezza. Ovvero, un monologo drammatico. L’interpretazione più diffusa è che la canzone parli della vita e delle opinioni di David Geffen, dirigente discografico (magnate dell’intrattenimento, si direbbe oggi), e che la Mitchell la scrisse dopo un viaggio che fecero insieme. Giustissimo. Si tratta di un approccio al songwriting (canzoni scritte per un personaggio, non per il menestrello che le canta) che è affascinante, oltre che non confessionale laddove ci si aspetta che la Mitchell, dati i suoi lavori precedenti, sia confessionale (come è, ad esempio, nella canzone «Court and Spark»). Questo monologo drammatico assomiglia di più a una canzone di Randy Newman o di Ray Davies. Ma anche leggere la canzone così significa perdere di vista le strategie di camuffamento di genere così evidenti nel testo.

E se «unfettered and alive» [«libero dalle catene e vivo»], quel bellissimo giro di frase così essenziale per il brano, una di quelle frasi che ti restano impresse, esprimesse un’ambizione della Mitchell tanto quanto di Geffen, il protagonista, e dunque la canzone parlasse della mancanza di libertà che la Mitchell sente nell’ambiente della «canzone pop»? E se fosse Joni Mitchell quella che aspira a essere l’«uomo libero» a Parigi, e perciò scimmiotta il monologo di liberazione di Geffen, per farlo suo? In tal caso la canzone avrebbe almeno due livelli di significato (e forse di questo secondo livello lo stesso Geffen si era accorto all’inizio quando, a quanto si dice, trovò la canzone un po’ imbarazzante), se non molti di più.

Musicalmente, «Free Man» inizia con quello strano cromatismo sulla tastiera di una chitarra acustica, combinato con un qualche strumento a fiato, suonato da Tom Scott. Grazie a lui, le eccentricità musicali della Mitchell, che all’inizio di «Free Man» si possono vedere in quelle armonie aperte con accordature strane e nelle inversioni ritmiche, sembrano completamente intenzionali, eroiche addirittura. Il jazz qui sembra sinonimo di pittorico, impulsivo, quasi mediterraneo. Forse per compiere la transizione dall’idioma folk a qualcosa di più sofisticato, è necessario rifarsi a Gauguin.

La melodia di «Free Man» è stupefacente, il testo è dolce e aperto, e il tutto scorre veloce come se non fosse affatto complesso, anche se lo è. Più si analizza da vicino «Free Man in Paris», più le domande sollevate dal brano si fanno urgenti. Cosa rappresenta Parigi qui, di preciso? L’amore a Parigi è una cosa diversa, oppure sono gli americani a proiettare una differenza sulla città francese? E quando un uomo è libero a Parigi, qual è la natura della sua libertà?

Qualche tempo fa ho partecipato a una tavola rotonda sulla Stanza di Giovanni di James Baldwin, e non posso fare a meno di pensare che essere liberi a Parigi significhi proprio ciò che viene rappresentato in quello straordinario romanzo: il bere, il libertinaggio, e forse perfino, be’, la bisessualità. Ecco cosa rende l’interpretazione da parte della Mitchell del ruolo di Geffen, o del personaggio basato su Geffen, tanto più interessante. «Libero dalle catene e vivo» significa non costretto dalle idee normative sul desiderio, la sessualità, la professione, e indica, nel contesto del rock californiano, l’emancipazione dalle convenzioni consolidate su cosa una donna può o non può fare.

 

Court and Spark

https://www.youtube.com/watch?v=x4enC_DzK6U

Voglio spiegare brevemente perché ho pensato di iniziare da «Free Man in Paris» anziché da «Court and Spark», la canzone di apertura, un brano che amo particolarmente e che anzi, per molti versi, è tra le mie canzoni preferite dell’album a cui dà il nome. Tuttavia: «Court and Spark» è una ballata meditativa per pianoforte, un genere molto battuto nel repertorio della Mitchell e che risale a «For Free» su Ladies of the Canyon e a «River» su Blue. In quanto tale «Court and Spark» sembra una composizione liminale, un pezzo di tessuto connettivo per permettere ai fan della prima ora di Joni Mitchell di entrare in sintonia con l’album.

Quello che mi piace di più di «Court and Spark» è il riff di pianoforte con le sue veloci figure ritmiche, e la nota di basso continuo, e quel tocco di chitarra elettrica che sembra una pedal steel ma non lo è. E poi c’è l’ultimo verso, che è come se impedisse alla canzone di chiudersi davvero, e funge da introduzione al metodo dell’intero album: «But I couldn’t let go of LA, city of the fallen angels» [«Ma non sono riuscita a lasciarmi alle spalle Los Angeles, la città degli angeli caduti»]. Amo la canzone perché questo suo allontanarsi dall’ineffabile ricchezza dell’affiliazione controculturale («So he buried the coins he made in People’s Park / And went looking for a woman to court and spark», «Così lui ha seppellito le monete che aveva guadagnato a People’s Park / E si è messo in cerca di una donna da corteggiare e illuminare») in direzione della vera e propria ricchezza mondana, quella che normalmente associamo a Los Angeles, indica che il disco si sta allontanando dai tradizionali capisaldi compositivi di Joni Mitchell.

Oppure: ricordate tutto quell’immaginario edenico nella registrazione originale di «Woodstock», su Ladies of the Canyon, tutta quella fede nell’immaginario edenico? «I came upon a child of God» [«Mi sono imbattuta in un figlio di Dio»], eccetera. «We are stardust, we are golden, and we got to get ourselves back to the garden» [«Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo fare in modo di tornare nel giardino»]. Io non credo affatto nella cosmogonia di «Woodstock», né nel suo idealismo. E «Court and Spark», per fortuna, si allontana dall’edenico. Succede proprio lì, alla fine della canzone. E lo si capisce perché la voce della Mitchell, su «Court and Spark», ha iniziato la sua lunga, lenta discesa dal registro di soprano. Ha un timbro scuro. Ha un carattere jazz. Possiede il disincanto del jazz.

Ho cercato di spiegarmi perché il grande salto musicale di Court and Spark, il salto da arrangiamenti folk un po’ scheletrici a una rotonda sonorità West Coast piena di inflessioni jazz, fosse inevitabile, soprattutto in rapporto ai temi dell’album.

Per farlo mi sembra utile prendere in considerazione un pezzo di Ladies of the Canyon, «For Free». In questa canzone, la voce narrante di Joni sta camminando in una «città sporca» dopo aver dormito in un «bell’albergo», nel mezzo di una spedizione di shopping, quando a un angolo di strada, «in attesa che scatti il verde», incontra un suonatore di clarinetto, che «suonava proprio bene, e gratis». Nella seconda strofa la Mitchell spiega che lei lavora nell’industria della musica («I’ll play if you have the money / Or if you’re a friend to me», «E suono se tu hai i soldi / Oppure se sei mio amico»), mentre la terza strofa sottolinea quanto in confronto a lei il clarinettista sia ignorato («They knew he’d never been on their tv screens / So they passed his music by», «Sapevano che non era mai stato sullo schermo della loro tv / Così ignoravano la sua musica») eppure lui continua a suonare finché, verso la fine, la ballata piano e voce lascia spazio a un vero suonatore di clarinetto, che improvvisa e fraseggia fino al termine della canzone. Lo strumento a fiato appare qui, in questa tragedia in sedicesimo sulle differenze tra il successo musicale e il fallimento musicale, e che dunque rimanda anche in un certo senso al divario di classe ed economico, come un’anticipazione degli strumenti a fiato presenti in For the Roses e in Court and Spark.

Mi è difficile descrivere quanto sia perfetta la parte vocale di «For Free». La Mitchell ha la straordinaria capacità di gestire le sillabe in più che inserisce nei versi come se danzasse – in «For Free» questo succede molte volte – ma c’è anche un’intonazione perfetta, davvero, ed è come se tra il clarinetto e la voce si instaurasse una sorta di competizione su chi ha l’intonazione più limpida. Il punto di partenza è diverso, ma sono perfetti allo stesso modo. Per non parlare del vibrato di Joni Mitchell nel suo periodo acuto, impiegato perfettamente alla fine del verso, forse non nel modo appariscente di Joan Baez, ma in un modo che è di gran lunga più virtuosistico di altri cantanti dell’epoca – Dylan, McGuinn, Grace Slick, o i suoi amici Crosby Stills Nash & Young. Su Ladies of the Canyon si dimostra una cantante quasi letteralmente perfetta. «For Free» parla del disagio dell’industria musicale e in questo prefigura il tema di «Free Man in Paris» che ritorna più e più volte in Court and Spark. Il tema della canzone pop.

La mia ipotesi è questa. Da giovane, all’epoca in cui viveva a Toronto, la Mitchell di tanto in tanto faceva la musicista di strada (oltre a lavorare nel reparto di abbigliamento femminile di un grande magazzino locale), e i suoi primi concertini avevano tutto il fascino del periodo folk: locali vuoti, ostelli della gioventù e via dicendo. Perciò il clarinettista di «For Free» non è tanto un esotico altro per la Mitchell, quanto qualcuno in cui vede riflesso il proprio passato. Lo stesso si potrebbe dire del protagonista maschile di «Court and Spark», quello che suonava per qualche spicciolo a People’s Park. È come se nell’opera di Joni Mitchell ci fosse un racconto dialettico, in cui gli strumenti a fiato sono il simbolo della ricercatezza, dell’allontanamento dalla condizione di musicista di strada, anche se si riallacciano a quel passato. Nella musica pop seria e prodotta in studio si utilizzano gli archi, i legni e gli ottoni, il che dovrebbe riscattare il musicista dalla povertà e dall’irrilevanza, e tuttavia il percorso della Mitchell è tale che una volta arrivata alla perfezione della produzione in studio, con Court and Spark, comincia a smantellarla, finché, con l’album Mingus, realizza qualcosa che non ha niente a che vedere con la «canzone pop» ed è schiettamente punk/sperimentale (la registrazione gracchiante della chitarra acustica, che sulle note basse produce un ronzio, mi ricorda tantissimo i Public Image Limited). In questo disco ha un ruolo di primo piano Wayne Shorter, uno dei grandi sassofonisti contemporanei, in un contesto però quasi irriconoscibile, al tempo stesso jazz e non jazz.

 

Raised on Robbery

https://www.youtube.com/watch?v=TjbfsKaG86g

«Raised on Robbery» è una canzone perfetta, a mio parere. È ambiziosa, è melodicamente accattivante, il testo è molto, molto spiritoso, ed è composta da sezioni che differiscono in maniera radicale l’una dall’altra, vale a dire che il brano ha uno sviluppo. Inizia di fatto come un omaggio alle Andrews Sisters, con tutte le armonie a parti strette cantate dalla stessa Mitchell (tre tracce? sei? ha dovuto raddoppiare le parti per ottenere quell’armonizzazione vocale così fluida?), dopodiché si trasforma (quando dice «She says let me sit down») in un pezzo rock’n’roll, quasi rockabilly, lasciando lo spazio per un assolo di sax di Tom Scott e, più avanti, per un elegante assolo di chitarra di Robbie Robertson.

Ma di che parla «Raised on Robbery»?

La storia è raccontata in terza persona, di nuovo, come «Free Man in Paris». Si svolge a nord del confine (sono risalito a diversi Empire Hotel in Canada, ma l’ambientazione più probabile è Toronto) e riguarda una donna che adesca un tizio al bar. Il tizio ha scommesso sui Toronto Maple Leafs (sic) e perciò sta guardando la partita sulla tv a parete. Da come gli si offre e lo lusinga è difficile capire se la donna è una prostituta o soltanto una che se la passa male o entrambe le cose. Il succo della sua logica è: dammi una possibilità.

Si tratta di una delle canzoni della Mitchell più spensierate e divertenti, ma nonostante tutto secondo me non è meno raffinata di tante altre. Se in «Free Man in Paris» vediamo Joni Mitchell che pensa dal punto di vista maschile, il punto di vista del magnate della musica, «Raised on Robbery» racconta quello che sarebbe potuto succedere a lei, o forse i trucchetti disperati a cui una donna è costretta a ricorrere nel darwinismo dell’economia capitalista:

 

I’m a pretty good cook

Sitting on my groceries

Come up to my kitchen

I’ll show you my best recipe

 

[Sono una brava cuoca

Ho una bella scorta di delizie

Vieni nella mia cucina

Ti faccio provare la mia ricetta migliore]

 

L’allusione è a Robert Johnson, naturalmente, ma con una simpatica inversione di genere. E a quale «robbery» [«rapina»] si riferisce il titolo? Sta parlando di musica, qui, oppure soltanto della situazione economica disperata della protagonista? Forse, in parte, sta parlando di plagio musicale, cioè di pastiche o di intertestualità musicale, che è appunto ciò che la canzone incarna con le sue armonie vocali sovrapposte e il trattamento comico della voce nelle strofe. «Raised on Robbery» è tutta un plagio, ma in un senso significativamente diverso dal resto del disco, in cui i generi e gli idiomi vengono ricombinati secondo strategie imprevedibili e idiosincratiche. «Raised on Robbery» è un omaggio stilizzato al rock’n’roll (e al jump blues), soprattutto quello degli anni Cinquanta. Tutto gira intorno alla musica che la Mitchell doveva aver ascoltato da bambina.

O forse la «rapina» si riferisce, tramite la storia raccontata nella canzone, alle cose che una giovane cantautrice deve fare per arrivare a questo momento, l’apice del cantautorato del Laurel Canyon di Los Angeles con le sue produzioni sontuose. Non fermarti di fronte a niente! Vendi tutto ciò che possiedi, comprese le tue ricette!

 

Twisted

Il testo di «Twisted» è di Annie Ross e risale ai primi anni Cinquanta. La versione originale della Ross è in vocalese, cantata sul sottofondo di un assolo di sassofono preesistente (l’idea era stata di un dirigente discografico). In un certo senso parla di psicoanalisi, e a quanto pare Joni Mitchell era stata in analisi – psicoanalisi, quella vera – per un annetto prima di incidere Court and Spark, così racconta lei; oltre a essere innamorata della canzone, sentiva che i suoi trascorsi sul lettino le permettevano di immedesimarsi completamente nel testo.

La canzone è molto divertente e ricorda lo stile sbarazzino e un po’ caricaturale di Bette Midler nei primi anni Settanta. Nonostante questo, la Mitchell riversa nel cantato tutta la tecnica di cui dispone, dando vita a una rilettura impeccabile, spiritosa e affascinante della canzone. Nel farlo si trasforma dalla testa ai piedi, sotto i nostri occhi, in una cantante di jazz. Se nel resto dell’album questo argomento, l’argomento del jazz, tenuto un po’ in secondo piano, «Twisted» va nella direzione opposta. La Mitchell atterra senza sbavature sull’insidiosa e ingannevole melodia, il tutto muovendosi con sicurezza su un’estensione di un’ottava e mezzo, se non di più. E ci infila dentro il suo nuovo timbro scuro, conferendo al brano più grinta rispetto a Annie Ross (che ha una voce piuttosto pulitina). Nel complesso la Mitchell sembra – indovinato – la cantante che avrebbe poi fatto un album con Charles Mingus.

Sono soltanto io a pensare che tutta l’idea di «Twisted» sia assai più cupa di quanto appaia a prima vista? Tanto per dirne una, Annie Ross, l’autrice del testo, ebbe una vita molto travagliata dopo aver buttato giù quei versi: per un periodo si fece di eroina, venne sostituita da un’altra cantante nei concerti della band che portava il suo nome, ebbe una sfilza di amanti tra cui Lenny Bruce, diversi figli da storie occasionali, comprò un nightclub, fece bancarotta, per poi risorgere negli anni Ottanta e Novanta come attrice caratterista. Chissà che Annie Ross non stesse tratteggiando, in vocalese, una certa isteria femminile attribuita alle donne che hanno osato cantare il jazz, come Billie Holiday e Nina Simone, grandi artiste, schiacciate dal versante maschile dell’industria musicale. La «Twisted» di Joni Mitchell, per come la vedo io, non è soltanto un bis avanzato dalle session dell’album precedente (For the Roses); è un sottile e indiretto grido d’aiuto da parte di una persona che ha appena fatto tutto ciò che le era richiesto per entrare nell’empireo dello show business e che adesso inizia a scontarne le conseguenze.

L’altro giorno, in macchina, ho sentito «Our House» di Graham Nash alla radio. Mi ci sono concentrato bene, cercando di andare oltre la stratificazione prodotta dai diecimila ascolti precedenti, per arrivare a capirla più a fondo. Il brano si propone di descrivere la vita di coppia di Nash e Joni Mitchell: che inno all’idillio domestico, con tanto di gatti e vasi di fiori! Come si fa a far quadrare questa rappresentazione dell’idillio domestico con la Mitchell del periodo successivo, che dopo Court and Spark ha fatto un jazz-rock – non trovo un termine migliore – sempre più sperimentale e ricercato, fino a Mingus nel 1979, arrivata al quale aveva quasi interamente smontato il suo successo mainstream per inseguire qualcosa di più elaborato della canzone pop? E poi ci sono gli album degli anni Ottanta e Novanta, che a tratti sono anche belli ma che (e di questo la colpa secondo me è in gran parte di Larry Klein) risentono anche dello stile di produzione degli anni Ottanta, e in cui l’ambientalismo e la critica sociale prendono il posto delle penetranti confessioni dei primi album. Court and Spark segna il massimo livello di successo commerciale ottenuto da Joni Mitchell (anche se credo che abbia ricevuto un Grammy molti anni dopo); più avanti nella sua carriera le canzoni si fanno meno seducenti, a volte arrabbiate, fosche, amareggiate rispetto allo stato del mondo. In un certo senso «Twisted», malgrado la sua leggerezza, fa intravedere una Joni Mitchell che non conoscevamo, diversa dalla seducente e a volte malinconica cantante intimista dei primi album. Come conciliare la Joni Mitchell di «Big Yellow Taxy» e «Our House» con il presagio che vedo nascosto dietro «Twisted»?

Quindi la domanda è se «Twisted» sia un semplice divertissement jazz, o se prefiguri un problema ben più complesso per le donne che lavorano nel campo della canzone pop, la cui battaglia più autentica è quella di descrivere la soggettività femminile di fronte all’oggettificazione del femminile, e che, quando l’industria limita la loro autonomia, sembrano diventare isteriche, se non peggio.

Naturalmente, i recenti e un po’ misteriosi problemi medici di Joni Mitchell, che le hanno provocato un’afasia temporanea, o problemi più cronici di cui non si conosce ancora la natura, fanno di lei, così sembra, una cantautrice ormai a riposo. Si è chiusa nel silenzio. E ha molte valide ragioni: non ha avuto il riconoscimento che meritava, non ha più bisogno di dimostrare nulla, e così via. Ma si potrebbe anche pensare che il concetto della cantautrice, la musa, colei che possedeva la casa con i gatti e i vasi di fiori, fosse riduttivo rispetto alla serietà dell’artista donna. Court and Spark, con il suo titolo splendido e allusivo, la sua superficie levigata e perfetta, e il suo progredire e immergersi in descrizioni più o meno velate di una soggettività femminile allo stremo, sembrerebbe molto meno rivoluzionario, per fare un esempio, di Cut delle Slits, che uscì appena quattro o cinque anni dopo, ma la mia tesi è che forse non è affatto meno rivoluzionario, che è allo stesso tempo grandiosamente ambizioso, straordinariamente musicale e liricamente sovversivo come pochi altri, nonostante la sua patina da studio di produzione di Los Angeles. Dopo Court and Spark, la Mitchell non ha mai fatto un album esattamente uguale (anche The Hissing of Summer Lawns, quello che gli si avvicina di più, è più rarefatto, scheletrico), non voleva, e chi può darle torto. Se le cose sono così dolorose come appaiono qui, la mossa del vero artista è rappresentare il macchinario della canzone pop in tutta la sua complessa, malevola perfezione, e poi iniziare a scrollarselo di dosso.

© Rick Moody, 2017. Tutti i diritti riservati.

 Per i versi delle canzoni di Joni Mitchell si è fatto riferimento, ove possibile, al volume Joni Mitchell, Both Sides. Conversazioni sulla vita, l’arte, la musica, Sur, Roma 2016, traduzione di Francesco Graziosi.

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