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Qualche domanda a Nana Kwame Adjei-Brenyah

redazione BIGSUR, Interviste, Ritratti, Scrittura Lascia un commento

Siete pronti per Friday Black, il potentissimo esordio di Nana Kwame Adjei-Brenyah? Se volete scoprire di più su questo giovane e promettente scrittore americano, qui sotto trovate una breve intervista per affacciarvi al suo mondo. Buona lettura!

 

Molti dei tuoi racconti affrontano temi particolarmente seri e difficili come il razzismo e altri sistemi disumani, eppure nel libro c’è anche molto umorismo. Come hai fatto a trovare l’equilibrio fra queste due componenti?
Ciò che è ingiusto, inaspettato, illogico, secondo me può anche avere un risvolto comico. Molti dei sistemi di oppressione radicati nella nostra civiltà, come il razzismo, spesso risultano piuttosto comici quando li si guarda da vicino. Non nella loro brutalità, o nel modo in cui si manifesta concretamente il male che fanno, ma nella mancanza di logica che porta individui teoricamente ragionevoli a vivere vite così violente. Che gli esseri umani si calpestino a vicenda per accaparrarsi un televisore a prezzo scontato non è divertente, è folle. Ma il fatto che continui a succedere, e che nonostante lo consideriamo tutti sbagliato non facciamo o non possiamo fare nulla per impedirlo, ecco, in questo c’è qualcosa di strano. Qualcosa che potrebbe essere comico, se non fosse così triste. Mi piace utilizzare l’umorismo per sottolineare quanto siano assurde certe forme di crudeltà.

La comicità è uno dei tanti strumenti che un narratore ha a disposizione. A volte quello di cui si ride è la nostra civiltà malata. A volte quello di cui si ride è che non c’è proprio niente da ridere.

 

Cos’è che fa di Friday Black una raccolta unica e coesa? C’è un tema centrale?
I racconti di Friday Black sono molto diversi fra loro, e sono felice di quanto può risultare sorprendente il libro. Mi piace che nel passare da una storia all’altra il lettore non sappia in che mondo si ritroverà. Detto questo, mi piace pensare che uno dei fili che percorrono e legano insieme tutti i racconti sia la consapevolezza che i personaggi hanno del mondo che li circonda, una certa tendenza a indagarlo. Consciamente o inconsciamente, i personaggi di queste storie capiscono che c’è qualcosa che non va, qualcosa che manca. Non hanno le risposte ma cercano quantomeno di porre le domande importanti rispetto a sé stessi e al proprio mondo. Domande del tipo: Qual è il costo del razzismo sul cuore umano? Che prezzo pagano i lavoratori nella nostra cultura consumistica? Come si fa a sopravvivere in un mondo brutale senza diventare parte della brutalità?

 

In questi racconti ti muovi fra il realismo sporco e un graffiante futurismo. Perché hai deciso di fondere questi due stili?
Mi piace abitare spazi immaginari del futuro di cui però, in un modo o nell’altro, l’esistenza sembrerebbe possibile anche qui e ora. Mi piace usare quella che chiamo «l’iperbole del possibile», quella che ti fa pensare: «Ma in fondo questo scenario è così lontano dalla verità?» D’altro canto, per me è anche importante che in certi casi i racconti abbiano ambientazioni del tutto familiari, perché a volte il mondo così com’è è già abbastanza assurdo, abbastanza caotico, da consentirmi di far passare l’idea che voglio esprimere.

In altri casi, invece, fare delle estrapolazioni verso il futuro può aiutarci a enfatizzare le assurdità del mondo contemporaneo. Come il nostro perenne stato di guerra, tema che sfioro nel racconto «L’Era». Mi piace pensare che ci sarà un tempo in cui il mondo, guardandosi indietro, ricorderà quest’epoca con disgusto. Invece di scrivere di quel mondo, del mondo che spero verrà, spesso voglio scrivere del mondo verso cui pare che stiamo andando, dove le macchine da guerra diventano sempre più potenti e spietate e sempre più persone accettano la brutalità come un dato di fatto della vita. L’idea è di creare questi mondi – mondi a cui spero e immagino che la maggior parte dei lettori opporrà resistenza, mondi che li faranno rabbrividire – e quindi evidenziare sotto quali aspetti forse abbiamo già raggiunto il triste futuro che descrivo.

 

Perché hai scritto questo libro?
La letteratura è il miglior modo che conosco per dire la verità e darle vita. Arthur Flowers, che insegna a Syracuse, una volta ci ha assegnato questo compito: «Scrivete un racconto per cambiare il mondo». All’inizio ho un po’ alzato gli occhi al cielo, forse ho addirittura pensato che fosse un intento pretenzioso. Che un singolo individuo potesse «salvare» qualcosa mi sembrava ridicolo. Ma dopo averci pensato meglio, mi sono reso conto che «salvare il mondo» può significare molte cose. Il racconto più breve della raccolta, «Cose che diceva mia madre», è quello che ho scritto per rispondere alla richiesta di Arthur. Parla dei molti modi in cui mia madre mi vuole bene. Nasce semplicemente dalla mia esperienza personale. Ma è onesto, e penso che questo, di per sé, sia già qualcosa di importante. Anche questo può salvare il mondo. Non penso più che sia pretenzioso cercare di usare la letteratura per contribuire a migliorare il mondo: credo che anzi sia da disfattisti non provarci.

Spero che questo libro possa aiutare i neri a sentirsi meno invisibili. Spero che possa aiutare i suoi lettori a trovare un modo di ricontestualizzare la loro infelicità: forse è il sistema a essere sbagliato, non sei tu. Ho scritto questo libro perché qualcuno che lavora dalla mattina alla sera il giorno del Black Friday possa magari sentir confermati i suoi sospetti sul fatto che c’è qualcosa di malato se i prezzi ribassati portano gli esseri umani a calpestarsi a vicenda.

 

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Sono un grandissimo fan di scrittori come ZZ Packer e Denis Johnson. Toni Morrison è, ovviamente, una dea scesa in terra. E un altro dei miei autori preferiti è senz’altro George Saunders, che per me è stato un mentore importante e un amico. Certi libri, come Mumbo Jumbo di Ishmael Reed, mi hanno fatto praticamente scoppiare la testa, mi hanno dimostrato quanto può essere ampio il campo della letteratura, mentre fino a quel momento avevo camminato come su una corda tesa, sforzandomi di fare in modo che la mia scrittura avesse una certa forma. Leggere quel libro è stata una liberazione.

Mi ispirano tutti gli scrittori che sfidano sé stessi a dare il meglio sulla pagina. Mi ispira la gentilezza inaspettata. Mi ispirano Kendrick Lamar, Lupe Fiasco e altri rapper che prendono a calci in culo la lingua inglese come nessun altro nella storia ha mai fatto. Mi ispirano i miei amici e la mia famiglia. Traggo ispirazione da un sacco di cose, insomma.

 

Alcuni dei racconti sono basati sulla vita reale?
Alcuni dei racconti sono basati su fatti realmente accaduti. E tutti, in un certo senso, sono basati sulla «vita reale». Anche quelli che deformano più radicalmente la realtà affondano le radici nella mia percezione del reale. Quando scrivo cose che vanno al di là del realismo, cerco comunque di cogliere quella che per me è la sensazione di una specifica esperienza di vita.

Io sono un afroamericano, nato a New York da immigrati ghanesi, il che influenza in mille modi la mia capacità di vedere il mondo e di fare arte. Questo è importantissimo, non c’è dubbio. E una volta ho vinto davvero un giaccone della Northface per mia madre lavorando il giorno del Black Friday, peraltro in un negozio chiamato «Against All Odds» [«Contro ogni pronostico», n.d.t.].

 

In molti dei tuoi racconti compaiono concetti surreali che sembrano rifarsi a fenomeni sociali realmente esistenti, per esempio la «Scala della nerezza» in «I 5 della Finkelstein». Cosa speri di comunicare al lettore, usando questi dispositivi?
Mi sembra che nella vita reale molti di noi si creino strutture mentali di questo tipo, per comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Per esempio, se sei nero negli Stati Uniti capita che ti venga richiesto spessissimo di passare da un codice di comunicazione all’altro. Non farlo può danneggiarti. E lo specifico cambiamento di codice che ti viene richiesto, in maniera più o meno esplicita, spesso prevede l’attenuazione di certi aspetti della tua identità ricollegabili all’essere nero. Per quasi tutti i neri degli Stati Uniti, questa è una parte comunissima della vita. Ecco, nel racconto «I 5 della Finkelstein» volevo mettere in risalto questo processo rendendo letterale e concreto qualcosa che di solito si sperimenta solo a livello di sensazione, e integrandolo nella realtà materiale del racconto. Invece di essere semplicemente consapevole dell’attenuazione della propria nerezza, il protagonista per muoversi con efficacia nel mondo alza e abbassa letteralmente il proprio livello di nerezza su una scala da 1 a 10. Così come, nel racconto che dà il titolo al libro, i clienti del centro commerciale sono assetati di sangue e simili a zombie. E chiunque abbia mai lavorato durante un Black Friday sa benissimo come sono arrivato a questa immagine.

 

© Nana Kwame Adjei-Brenyah, 2018. Tutti i diritti riservati.

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