A me puoi dirlo

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Martina Testa #InCasaEditrice Lascia un commento

In questi giorni la redazione si è sparpagliata nelle case di tutti noi: ecco allora i dispacci dalle sedi distaccate di SUR, che mai come adesso si sente una CASA editrice. Oggi scrive Martina Testa, editor.

Cari lettori,
ecco un pensiero che ho fatto in questi giorni: l’epidemia ci ha ricordato brutalmente che tutti abbiamo un corpo, un corpo vulnerabile e mortale. È vero che le diseguaglianze sociali espongono alcuni corpi a un rischio molto maggiore di altri, ma il virus, in sé, non fa differenze: assale, con esiti diversi, tutti i corpi umani, magri e grassi, giovani e vecchi, bianchi e neri, uomini e donne. Quanto spesso riusciamo a pensarci, come corpi, al di fuori di queste categorie? È raro, perché ciò che le scavalca e rende i nostri corpi tutti uguali è la vulnerabilità, la mortalità, alla quale, per l’appunto, preferiamo non pensare mai.

 

«A me puoi dirlo» di Catherine Lacey

 

A me puoi dirlo di Catherine Lacey è un romanzo che ci sfida a fare questo: a seguire per duecento pagine un protagonista di cui non conosciamo mai l’età, il colore della pelle, la forma del corpo, il genere. È una persona inerme che arriva all’improvviso in un piccolo paese; gli abitanti si dichiarano ben disposti a darle ospitalità, ma a prima vista è impossibile stabilire quanti anni abbia, a quale etnia diversa dalla loro appartenga, anche solo se sia maschio o femmina. L’ospite capisce la loro lingua, ma si rifiuta di parlare e spiegarsi, e questa reticenza mette gli interlocutori in scacco, li manda in corto circuito. Siamo capaci di accogliere l’altro senza inserirlo nelle categorie con cui leggiamo il mondo noi? È possibile una relazione sincera e profonda fra esseri umani che prescinda dalle caratteristiche corporee? Raramente ho letto un romanzo che affronti la questione in maniera così originale. Catherine Lacey sarebbe dovuta arrivare in Italia questa settimana per presentarlo in molte città, e non vedevo l’ora di accompagnarla e farle da interprete. Purtroppo il tour è saltato, ma al suo libro, ora che siamo costretti a fare i conti in maniera così pesante con la nostra corporeità, non smetto di pensare. Ve ne faccio leggere una pagina:

 

Nel bagno di una stazione di servizio – piscio sul pavimento, distributore di assorbenti interni, orinatoio, una cabina aperta – chiusi la porta a chiave e mi spogliai per sciacquarmi.
In uno specchio rotto vidi due gambe, due braccia. Chiusi gli occhi e provai a ricordare il mio corpo, ma dietro le palpebre serrate la mente non vide nulla, incapace di ricordare la cosa in cui abitava. Ancora una volta aprii gli occhi, vidi un corpo. Un po’ più largo in certi punti e più stretto in altri, con parti morbide e altre sode, e dove le mie gambe si univano c’era qualcosa che sapevo di dover proteggere, anche se il perché mi sfuggiva.
Come mi rivestii, ogni ricordo del passato o del presente di quel corpo scomparve sotto la stoffa. Dev’essere che io, qualunque cosa sia, me ne sto sul fondo di una canoa, a pancia in su, a guardare il cielo. Non riesco ad alzarmi o a muovermi. Non ho ricordi di me che salgo in canoa. A volte sento delle persone che parlano alla canoa come se non si rendessero conto che ci sono io lì dentro. Ecco, per me è così, io me la vivo così. Perché è tanto difficile da spiegare? Mi sembra di non riuscire mai a descriverlo in maniera abbastanza chiara.
Qualcuno una volta mi ha detto che ho un collo sottile, un collo di donna, hanno detto, un collo di donna in mezzo a due spalle larghe da uomo, ma forse era il contrario: spalle sottili e collo largo. Tutto quello che ricordo di aver sentito dire sul mio corpo smentisce qualcos’altro che mi è stato detto in proposito. Guardo la mia pelle e non riesco a stabilire di che colore è. Mi specchio e non vedo niente di particolare. È come se stessi a sedere da qualche parte dentro tutti questi strati di pelle e muscoli e ossa e grasso e peli. Chissà se solo gli altri possono definire il nostro corpo, o se uno dall’interno può cogliere qualcosa di più vero, qualcosa che non si può vedere o spiegare a parole. Certo, con il tempo i corpi cambiano – si espandono e si restringono, la pelle si assottiglia o s’ispessisce, nuovi corpi ci crescono dentro, le appendici cominciano a puzzare e vanno lavate, gli organi introducono tumori di soppiatto nel buio – ma risiedere in questi corpi non comporta
forse qualcosa di molto più grande e serio che il corpo stesso nasconde? Qualcosa che non si vede. Che cos’è? Perché non siamo in grado di parlarne?

Catherine Lacey, A me puoi dirlo, traduzione di Teresa Ciuffoletti

 

«Esercizi di fiducia» di Susan ChiImpossibilitata a girare l’Italia in compagnia di Catherine (ma con la speranza di riprogrammare il tour nei prossimi mesi), in questi giorni sto lavorando con Livia Massaccesi, il nostro grafico, e con l’illustratore Andrea Ucini alla copertina di un romanzo in uscita in autunno, Esercizi di fiducia di Susan Choi, vincitore negli Stati Uniti del National Book Award.
Magari non è immediato pensarci, ma noi editor non lavoriamo solo sui testi: diamo anche spunti e idee ai grafici per la realizzazione delle copertine; compito delicato, perché si tratta di spiegare a parole l’atmosfera, il sapore di un libro, l’effetto che speriamo abbia sul lettore, a persone che senza averlo letto dovranno cucirgli addosso un vestito.
Io ho fatto del mio meglio per descrivere a Livia questo romanzo fatto di adolescenza e teatro, sesso e potere, realtà e finzione: ora la palla è passata a lei e ad Andrea e sono molto curiosa di vedere cosa ne verrà fuori.

Nel frattempo – a proposito di grafica – ho cominciato a leggere Gargantua e Pantagruele di François Rabelais nella bellissima edizione in cinque volumi, con tavole di cinque diversi illustratori italiani, uscita per Gorilla Sapiens, una casa editrice indipendente che purtroppo ha da poco cessato le pubblicazioni. (Ma i cinque volumi sono ancora acquistabili a metà prezzo sul loro sito).

 

«Gargantua e Pantagruele»

 

Avevo voglia di imbarcarmi in un viaggio lunghissimo, avventuroso, divertente, e la mia speranza è che quando arriverò alla fine sarà finita anche l’epidemia. E voi ci riuscite a viaggiare da dentro casa? Vi auguro con tutto il cuore di riuscirci.

A presto,
Martina

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