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Che cos’è il giornalismo letterario? / 1

Leila Guerriero Reportage, Scrittura, Società, SUR Lascia un commento

Pubblichiamo oggi la prima parte di una magistrale crónica di Leila Guerriero, che riflette sul giornalismo narrativo, le sue origini e le sue ragioni. Il pezzo è stato pubblicato su Anfibia, che ringraziamo, e fa parte della raccolta Zona de obras (Anagrama). Qui potete leggere la seconda parte.

di Leila Guerriero
traduzione di Arianna Cinque

È maggio, ancora. È maggio, e sono lontana da casa. Sono in Spagna, a Madrid, in un hotel chiamato Alexandra, in calle San Bernardo, vicino alla Gran Vía. Sono le quattro del pomeriggio, ed è maggio, e penso. Penso a cosa vi dirò oggi, in questo mese di luglio, in questo martedì, in questa chiacchierata. Penso a questo rinchiusa nella mia stanza con un letto, un televisore e un balcone sul quale non posso andare perché ci sono i lavori. È maggio e sono lontana da casa, e mi chiedo come risponderò a questa domanda all’apparenza semplice che si interroga su cos’è e cosa non è il giornalismo narrativo. E penso. E ripenso. E prendo appunti. E poi cancello gli appunti che prendo. E allora mi metto le scarpe da ginnastica ed esco a correre.

È maggio, ma fa freddo, e corro per la Gran Vía schivando banchetti di libri, carrozzine, gente, gente, gente. Arrivo al parco del Retiro e corro lungo un sentiero di terra che costeggia le ringhiere, e penso, e ripenso, e mi pongo domande e allora, come un’illuminazione, mi ricordo del primo paragrafo di un testo che ho scritto poco tempo fa, quando era aprile e non ero a Madrid ma ad Alcalá de Henares, e non dormivo in un hotel ma in una residenza universitaria. E percorro a ritroso la strada, entro nell’Hotel Alexandra, salgo in camera, accendo il computer, cerco il testo, e il testo fa così:

Haiti ha un solo letto. È buia, calda, piccola, con una finestra il cui battente si mantiene aperto solo se lo si imprigiona nell’anta dell’armadio che contiene tre grucce e una coperta. Madrid, invece, è luminosa, tiepida, ampia, ci sono due letti e un armadio con dieci grucce e tre coperte. Haiti e Madrid sono i nomi di due delle camere della residenza universitaria dove alloggio ad Alcalá. Ce ne sono altre, e portano nomi come Teruel, Puerto Rico, Sevilla. Ma io, appena arrivata, vengo assegnata ad Haiti e, siccome non c’è il wi-fi, chiedo di essere trasferita e mi trasferiscono a Madrid. Così, nel giro di qualche minuto, porto computer, libri e valigia dal buco buio, caldo, piccolo e non tecnologizzato di Haiti al paradiso luminoso, tiepido, ampio e tecnologico di Madrid. E mentre cammino da una camera all’altra penso che qualcuno – un uomo, una donna – è venuto qui, ha visto le camere, ha deciso: “Questa è Madrid, questa è Haiti”. E mi dico che vizio, che mania: quella di vedere, in tutto, qualcos’altro. Quella di vedere, in tutto, una metafora. Poi, quella stessa sera, commento, in un bar, con un gruppo di persone, la curiosa assegnazione dei nomi: Haiti un pozzo buio, Madrid un prato luminoso. Tutti mi guardano straniti e uno, tra tutti, mi dice, facendo spallucce: “Sono anni che sto lì e non me ne ero nemmeno accorto. Ti va un’altra birra?”

Leggendo quel testo, in piedi davanti al computer, quando è ancora maggio, mi dico che forse lì posso trovare una risposta. Che il giornalismo narrativo è molte cose ma è, innanzitutto, uno sguardo – vedere, in quel che guardano tutti, qualcosa che non tutti vedono – e una certezza: la certezza di credere che non è la stessa cosa raccontare una storia in un modo qualsiasi. La certezza, diciamo, di credere che non è lo stesso iniziare una lezione un martedì di luglio a Santander dicendo «Stimato pubblico presente, il giornalismo narrativo è quanto segue, due punti» e porre l’attenzione su una giornalista che si fa delle domande, che ha dei dubbi, che cerca e che non trova, e che un giorno di maggio, correndo per Madrid, si ricorda di quanto aveva scritto un mese prima, correndo ad Alcalá, e che dove avrebbe potuto dire «Stimato pubblico presente, il giornalismo narrativo è quanto segue, due punti» sceglie di dire «È maggio, ancora. È maggio e sono lontana da casa». E non perché le piaccia di più dirlo così, e ancor meno perché dirlo così sia meno impegnativo, ma perché sospetta che solo se una prosa tenta di avere vita, avere nervi e sangue, entusiasmo, chi legge o ascolta potrà sentire la vita, i nervi e il sangue: l’entusiasmo.

Potremmo fare i sofisticati e dire che, per definizione, il giornalismo narrativo è quello che sfrutta alcuni elementi tipici della fiction – strutture, atmosfere, toni, descrizioni, dialoghi, scene – per narrare una storia reale e che, con questi elementi, costruisce un’impalcatura narrativa stimolante quanto quella di un buon romanzo o di un buon racconto. Potremmo proseguire dicendo che nei migliori testi di giornalismo narrativo non c’è mai un aggettivo di troppo né una virgola in meno, che non ci sono mai metafore inadeguate, ma che tutti i buoni testi di giornalismo narrativo sono molto più di un aggettivo, di una virgola ben inserita, di una buona metafora.

Perché il giornalismo narrativo è molte cose, ma certo non è una gara di ellissi sempre più strane, né una forma di supplire alla carenza di dati con semplici ornamenti, né una scusa per fare i furbi o parlare di sé. Il giornalismo narrativo è un mestiere modesto, praticato da individui abbastanza umili da sapere che non potranno mai comprendere il mondo, abbastanza testardi da perseverare nei propri obiettivi, e abbastanza superbi da credere che questi obiettivi interessino a tutti.

Il giornalismo narrativo ha le sue regole e la principale, ça va sans dire, è che si tratta di giornalismo. Questo significa che la costruzione di questi testi corposi non inizia per un impeto di ispirazione, né con l’aiuto del divino Buddha, ma con quello che si chiama reporting o lavoro sul campo, un momento precedente la scrittura che prevede una serie di operazioni quali lo studio di dati e statistiche, la lettura di libri, la ricerca di documenti storici, foto, mappe, cause giudiziarie, e un eccetera lungo come l’immaginazione del giornalista che intraprende tali attività. Il resto, è facile: tutto quello che c’è da fare è essere presenti prima per scomparire poi.

Nella prefazione all’antologia The Literary Journalists, Norman Sims, il curatore, dice che «Come gli antropologi e i sociologi, i reporter letterari credono che la comprensione delle culture sia un fine. Ma al contrario di questi studiosi, lasciano che l’azione drammatica parli liberamente di per sé […] Dal canto suo, il reportage normale presuppone cause ed effetti meno sottili, basati sui fatti riferiti più che su una comprensione della vita quotidiana. Qualsiasi nome vogliamo assegnarle, questa forma è certamente letteraria quanto giornalistica ed è più della somma delle sue parti».

Il giornalista colombiano Alberto Salcedo Ramos diceva, in un’intervista pubblicata dal quotidiano colombiano El Periódico, che: «Occorre restare sul luogo della nostra storia tutto il tempo possibile, per conoscere meglio la realtà che stiamo per narrare. La realtà è come una donna schiva che non si concede ai primi incontri. Per questo di solito si nasconde agli occhi degli impazienti. Bisogna sedurla, darle motivo di degnarci di uno sguardo».

Questo episodio l’ho già raccontato in un’altra conferenza, ma è quanto mai pertinente:

Alcuni anni fa scrissi di Jorge Busetto, un medico cardiologo, donnaiolo, cantante e sosia di Freddie Mercury in una tribute band argentina dei Queen. Lo intervistai in giorni e luoghi diversi, intervistai sua madre, suo padre, sua moglie, i suoi compagni, lo accompagnai all’ospedale dove lavorava, in palestra, a fare la spesa e a uno dei suoi concerti. Il giorno dello spettacolo i musicisti si presentarono a casa di Busetto alle otto di sera e andarono a cambiarsi. Qualche minuto dopo Busetto, che indossava un gilet di pelle, degli occhiali da sole Ray Ban e dei pantaloni di finta pelle rossa, apparve all’improvviso, allarmatissimo: il batterista era chiuso in bagno, vittima di una diarrea fulminante. E vestito così, senza pensarci due volte, Busetto uscì in strada a cercare, casa per casa, vicino per vicino, compresse di carbone per la diarrea. Era un mese che lavoravo a quella storia e quel minuto miracoloso arrivò alla fine. Sebbene sarebbe stata una sola riga del profilo, quel minuto diceva, sulle differenze tra l’originale e il clone, sul patetismo di quella fama di seconda mano, più di qualsiasi cosa avessi mai potuto teorizzare in quattro paragrafi.

Eppure, per vedere non occorre solo essere presenti; per vedere, soprattutto, bisogna diventare invisibili.

Il giornalismo narrativo si costruisce, più che sull’arte di porre domande, sull’arte di osservare. Il modo in cui le persone danno ordini, consultano prezzi, riempiono un carrello al supermercato, rispondono al telefono, scelgono i vestiti, svolgono il proprio lavoro e dispongono le cose in casa dice, delle persone, molto più di quanto le persone non siano disposte a dire di sé.

Nel suo libro The New Journalism, Tom Wolfe affermava che «Quando si passa dal reportage giornalistico a questa nuova forma di giornalismo […] si scopre che l’unità fondamentale del lavoro non è il dato, la singola informazione, ma la scena […]. Di conseguenza, il problema principale in qualità di reporter è, semplicemente, riuscire a restare con la persona sulla quale dovrai scrivere per il tempo sufficiente affinché le scene si svolgano davanti ai tuoi occhi».

Perché la giornalista americana Susan Orleans ha trascorso due anni impantanata nelle paludi della Florida per raccontare la storia di Laroche, un ladro di orchidee sul quale scrisse il libro intitolato, per l’appunto, Il ladro di orchidee? Perché il giornalista argentino Martín Caparrós è salito su un’auto a Buenos Aires e ha percorso 30.000 km nell’entroterra argentino per scrivere un libro che ha intitolato, per l’appunto, El interior? Perché non avevano nulla da fare? Perché era sembrato loro il modo più adeguato di trascorrere il giorno del loro compleanno, la migliore scusa per non andare al matrimonio di un amico, la maniera più comoda per non annoiarsi? Lo hanno fatto, credo, perché solo essendoci si impara, e solo imparando si comprende, e solo comprendendo si comincia a vedere. E solo quando si comincia a vedere, una volta estirpata l’erbaccia, una volta che quella primitiva confusione che è ogni storia umana – una confusa concatenazione di cause, un confuso groviglio di ragioni – risulta meno confusa è possibile raccontare.

E raccontare non è la parte facile della questione. Perché, dopo giorni, settimane o mesi di lavoro, bisogna organizzare un materiale dalle dimensioni mostruose e tirarne fuori un testo che contenga tutte le informazioni necessarie, che si scorrevole, appassionante, efficace, con una certa atmosfera, ma anch silenzi, dati duri e puri, un equilibrio di voci e opinioni, che non contenga preconcetti e che sia privo di luoghi comuni. La domanda, ovvio, è come farlo. E la risposta è che non c’è una risposta. Il giornalista americano Tracy Kidder afferma che «Ogni storia ha dentro sé uno o forse due modi di raccontarla. Il lavoro di un giornalista è scoprire quale». Il problema è che se la differenza tra un grande pezzo di giornalismo narrativo e un testo che non spicca il volo risiede proprio nel talento di un giornalista per scoprire qual è il modo migliore di raccontare la storia, non c’è modo di ridurre tutto ciò a un manuale di istruzioni. Ci sono solo alcune indicazioni.

Lo scrittore americano Stephen King qualche anno fa ha scritto un libro intitolato On writing: Autobiografia di un mestiere in cui parla del processo di scrittura. «Scrivere un libro», diceva, «è trascorrere vari giorni ad analizzare e identificare alberi. Una volta terminato, bisogna fare un passo indietro e osservare il bosco. Non è obbligatorio che tutti i libri trabocchino di simbolismo, ironia o musicalità, ma è mia opinione che tutti i libri (almeno quelli che vale la pena leggere) parlino di qualcosa. Nella prima versione o in quella immediatamente successiva, il tuo obbligo è decidere di che cosa parla il tuo. Nella seconda (o terza o quarta) ne hai un altro: rendere tutto più chiaro». Un giornalista narrativo ha lo stesso obbligo e lo adempie – proprio come uno scrittore di fiction – a tentoni, con la sola consapevolezza che se è vero che non esistono formule precise, è anche vero che, al di là della forma adatta a raccontare una storia, questa non sarà mai quella di un vacuo esibizionismo della prosa. Una raffica di sineddochi, metonimie e metafore non riuscirà a dissimulare il fatto che un giornalista non sappia di cosa stia parlando, non abbia fatto ricerche sufficienti o non abbia trovato un buon punto di vista. Nel buon giornalismo narrativo la prosa e la voce dell’autore non sono una bandiera sventolata da lievi venti di autocompiacimento ma uno strumento al servizio della storia. Ogni pausa, ogni silenzio, ogni immagine, ogni descrizione, hanno un senso che è, di gran lunga, opposto a quello di un ornamento.

Leggiamo, ad esempio, Rex Reed che descrive così il suo incontro con Ava Gardner nel suo profilo «Do you sleep in the nude?»: «Lei è lì, in piedi, senza il supporto di filtri contro una stanza che si scioglie sotto il calore di divani arancioni, pareti color lavanda e sedie da stella del cinema a fasce crema e menta, persa in mezzo a questo hotel di cupidi e cupole, infiocchettato come una torta di compleanno, che si chiama Regency. […] Ava Gardner cammina maestosamente nella sua gabbia rosata latte malta quale elegante leopardo. Indossa un golf di cachemire a collo alto, rimboccato fino ai gomiti da Ava, e una minigonna di tartan ed enormi occhiali dalla montatura nera ed è gloriosa, divinamente scalza». Leggiamo, ad esempio, il giornalista colombiano Alberto Salcedo Ramos che descrive così lo stile di boxe dell’ex campione del mondo Kid Pambelé, nel libro El oro y la oscuridad: «La mano sinistra in avanti manteneva distante l’avversario, con un’arroganza mai vista prima. Non era il tipo di jab che a mala pena serve a marcare il territorio e impedire che l’altro si avvicini, ma un martello persistente che stordiva e perforava. Pum, sulla bocca. Pum, sulla bocca dolorante. Pum, sulla bocca rotta. Pum, sulla bocca che sgorgava sangue. Il martello picchiava e picchiava, ossessivamente, dove più faceva male, e ti lasciava in pace solo alla fine del suo compito assassino».

Tutti avrebbero potuto scrivere altro. Rex Reed avrebbe potuto scrivere: «Nella stanza del Regency nella quale alloggia Ava Gardner ci sono divani arancioni e lei indossa una minigonna di tartan». Alberto Salcedo Ramos avrebbe potuto scrivere: «Kid Pambelé è un grande boxeur». Le informazioni sarebbero state le stesse, ma questi brani non sono messi lì solo per offrire informazioni, né a scopo puramente estetico. Non costruiscono, queste descrizioni, un senso che le trascende? Non aiutano, le immagini scelte per descrivere quella stanza del Regency, ad anticipare l’irritazione intimidatoria di una diva di un altro pianeta?; non disegna, quel crescendo di colpi sulla bocca, l’esatto potere della materia distruttiva? Se Orlean e Reed e Salcedo Ramos non avessero fatto questo sforzo, le informazioni sarebbero state le stesse, ma sarebbero state le stesse? Un giornalista narrativo è un grande architetto della prosa ma è, soprattutto, qualcuno che ha qualcosa da dire.

Nella conferenza dal titolo «Periodismo y narración», il giornalista e scrittore argentino Tomás Eloy Martínez affermava che: «Il giornalismo non è un circo in cui esibirsi ma uno strumento per pensare, per creare, per aiutare l’uomo nella sua eterna lotta per una vita più dignitosa e meno ingiusta. Dare una notizia e raccontare una storia non sono istanze estranee come potrebbero sembrare a prima vista. Al contrario, nella maggior parte dei casi, sono due movimenti di una stessa sinfonia. […] Un uomo non può dividersi tra il poeta in cerca della giusta espressione dalle ventuno a mezzanotte e il reporter indolente che fa cadere le parole sul tavolo della redazione come se fossero grani di mais».

Lo scrittore e giornalista argentino Rodolfo Walsh scrisse, nel 1957, un libro intitolato Operazione Massacro, su un fatto avvenuto nel 1956. Il 9 giugno di quell’anno militari nazionalisti sostenitori di Perón tentarono un’insurrezione, che fu placata, contro il governo della Revolución Libertadora. Sotto l’impero della legge marziale, lo Stato ne fucilò molti. Tra loro, un gruppo di civili riuniti in un appartamento della località di Florida che erano lì, per la maggior parte senza altra intenzione se non quella di ascoltare un incontro di boxe. Arrestati senza spiegazioni, furono condotti in una discarica nella località di José León Suárez, e fucilati. Ne morirono cinque, sette riuscirono a fuggire. Mesi dopo uno dei sopravvissuti, Juan Carlos Livraga, si presentò davanti alla giustizia per denunciare l’accaduto. La notte del 18 dicembre 1956 Rodolfo Walsh, che era allora giornalista culturale, traduttore dall’inglese e scrittore di racconti polizieschi, beveva birra in un bar quando un amico gli sussurrò la frase che gli avrebbe cambiato la vita: «C’è un fucilato vivo». Tre giorni dopo, Walsh si incontrava per la prima volta con Juan Carlos Livraga, il fucilato vivo, e quello fu l’inizio di un lavoro di mesi che lo portò a mettersi sulle tracce e a trovare due, tre, quattro, sette sopravvissuti. Dopo, quando giunse il momento di raccontare la storia, Walsh mise mano a tutte le tecniche della letteratura poliziesca, che conosceva molto bene: fece ampio uso di mistero, suspence, descrizioni certosine, struttura corale e un linguaggio scarno. Il libro inizia così: «Nicolás Carranza non era un uomo felice quella notte del 9 giugno 1956. Al riparo delle ombre era appena entrato in casa, ed è possibile che qualcosa gli rimuginasse dentro. Non lo sapremo mai con certezza. Molti pensieri duri l’uomo si porta nella tomba, e nella tomba di Nicolás Carranza la terra è già secca». Operazione Massacro apre con una panoramica che presenta gli uomini che moriranno quella notte nelle loro case, attorno al tavolo della cena e, sullo sfondo di queste vite quotidiane, avviene la carneficina: dodici persone che marciano verso la morte senza saperlo e che, quando se ne rendono conto, non muoiono in piedi: si umiliano. Carranza implora pietà. Rodríguez, perforato dai proiettili, chiede di essere finito come fosse un animale.

Walsh avrebbe potuto cercare un’altra strada. Avrebbe potuto scrivere un pezzo di giornalismo di inchiesta con un linguaggio giuridico e notarile, presentando prove, dati, documenti. Ma ha intuito che non era il modo giusto. Voleva che i suoi lettori avvertissero il peso dell’accaduto. Voleva che le pagine trasudassero il peso di quegli infelici che correvano nella notte illuminati dai fanali delle auto, con il fiato dei proiettili sul collo. «Lo stanno illuminando, lo stanno mirando», scrisse, per narrare il momento in cui Horacio Di Chiano tenta di non farsi uccidere fingendosi morto. «Non li vede, ma sa che stanno mirando alla nuca. Aspettano un movimento. Forse nemmeno quello. Forse si straniscono giustamente del fatto che non si muova […]. Una nausea spaventosa gli sorge dallo stomaco […]. Nessuno parla nel semicerchio di fucili che lo circonda. Ma nessuno spara. E così passano secondi, minuti, anni… e lo sparo non arriva. Quando sente di nuovo il motore, quando sparisce la luce, quando sa che si allontanano, don Horacio inizia a respirare, piano, piano, come se stesse imparando a farlo per la prima volta».

E se Walsh, invece di scrivere questo, avesse scritto: «Uno dei sopravvissuti del massacro di José León Suárez ha raccontato a questo giornalista che ha potuto salvarsi perché si è finto morto»? Percepireste l’ansimare metallico della paura, sareste in grado di immaginare l’odore di terra, il conato del vomito? Walsh non ha scritto ciò che ha scritto per vantarsi di quello che era in grado di fare con la lingua. Ha scritto ciò che ha scritto perché voleva produrre un effetto. Voleva che, nella comoda tranquillità del suo salone, un lettore si scontrasse con quella realtà e che quella realtà gli risultasse insopportabile. Che comprendesse che si era trattato di uomini che un’ora prima mangiavano cotolette – e non di eroi, e non di martiri della patria – e poco dopo mordevano la polvere e se la facevano addosso per la paura in un terreno incolto di José León Suárez. Gente come me, gente come voi. Gente comune, in circostanze assolutamente straordinarie.

Ed è in quell’arco che oscilla tra il ritrarre gente comune in circostanze straordinarie e gente straordinaria in circostanze comuni, che è stata costruita buona parte del giornalismo narrativo nord e latinoamericano.

«Quando leggiamo che un maremoto in Bangladesh ha provocato centomila vittime, il dato ci incupisce, ma non ci commuove», diceva Tomás Eloy Martínez nella citata conferenza. «Se invece leggessimo della tragedia di una donna rimasta sola al mondo dopo il maremoto e seguissimo passo passo la storia delle sue perdite, sapremmo tutto quello che c’è da sapere sul maremoto e tutto quello che c’è da sapere sul destino e sulle disgrazie involontarie e improvvise. Prima Hegel, poi Borges, scrissero che la sorte di un uomo riassume, in determinati momenti essenziali, la sorte di tutti gli uomini. […] Le notizie meglio riferite sono quelle che rivelano, per mezzo dell’esperienza di una sola persona, tutto quello che serve sapere». Mark Kramer è un giornalista nordamericano che ha assistito, per tre anni, a oltre cento interventi chirurgici per scrivere un libro intitolato Invasive procedures. In un capitolo narra di come scopre una carnosità sospetta nel suo orecchio e chiede a uno dei chirurghi di visitarlo. Il chirurgo lo fa e gli dice: «Sì, ha il cancro». Kramer racconta così la biopsia alla quale viene sottoposto: «“Non lo taglio”, mi dice, avvicinandosi con una siringa di novocaina, e poi con le forbici. “Potrebbe avvertire un bruciore”. L’ho già sentito prima. Mi pratica l’iniezione. Non brucia molto. Penso a come scrivere questo passaggio e mi chiedo se lo scriverò mentre sto lottando con la morte. Mi incide. “Io aggiusto le persone”, mi dice mentre taglia […]. Sento solo una forte trazione all’orecchio. Sento di nuovo il suono del taglio. Mi entusiasma il fatto che mi curi. Mi sento entusiasta».

Ma perché Kramer ci racconta un momento così intimo? Per catarsi? Per vantarsi di non essere morto di paura? Io credo di no. Io credo che lo racconti perché è un modo per dirci che questa tragedia altrui non è altrui; che se il cancro ha osato colpire un giornalista impassibile che abbiamo visto entrare e uscire da decine di sale operatorie senza scomporsi, il cancro può essere, domani, la tragedia di tutti voi, la mia, il racconto triste di ognuno di noi. E lì risiede, forse, parte della chiave del giornalismo narrativo: parlandoci di altri, ci parla, per tutto il tempo, di noi stessi.

© Leila Guerriero, 2010. Tutti i diritti riservati.

[Leggi qui la seconda parte della crónica]

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