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Testo a fronte: Eduardo Antonio Parra

redazione Scrittura, SUR, Traduzione Lascia un commento

Questa settimana il nostro Testo a fronte è dedicato all’autore messicano Eduardo Antonio Parra: pubblichiamo un estratto dal romanzo Nostalgia dell’ombra, edito da La Linea e tradotto da Angela Masotti. Buona lettura! 

Nostalgia de la sombra
di Eduardo Antonio Parra

Perdió la noción del tiempo desde una noche en que, borracho de alcohol y cemento, torturado por el recuerdo aún fresco de Victoria, acicateado por la torreta de una patrulla que giraba y giraba hasta enloquecerlo, buscó refugio en un callejón. Entró corriendo en las tinieblas, sin cuidar sus pasos, y tropezó con algo que se asemejaba a un costal de desperdicios. Fue a dar al suelo y el golpe lo descalabró. Seguro de que la patrulla seguía tras él, quiso levantarse, mas la sangre que manaba de su frente le veló la visión con una niebla roja. Llevó la mano a la herida y tocó el líquido tibio. No experimentó dolor, tan sólo extrañeza por aquella nueva boca que se le arqueaba en una sonrisa macabra justo debajo del nacimiento de su pelo y babeaba una saliva pastosa y colorada. Volvió a intentar erguirse sobre sus piernas y fue cuando vio los cuerpos: diseminados en tierra, algunos estaban inertes, otros parecían retorcerse y gemían y murmuraban plegarias incomprensibles enmedio de sufrimientos atroces. La oscuridad, la niebla en los ojos, los hilachos que embozaban los cuerpos, no le permitieron divisar sus rostros, pero el olor descompuesto y el sonido de sus respiraciones lo hicieron comprender que aquél era un lugar de expiación, de castigo: un sitio reservado a los demonios y las almas que han decidido abandonar el mundo de los hombres.En vez de ponerse de pie, se acostó, acomodándose entre dos bultos, aspirando sus humores tibios, invocando un sueño que soslayara al fin los rostros de su mujer y sus hijos que le salían al paso en cualquier parte. Había bebido durante días sin comer, había recorrido las calles en busca de la desmemoria, y siempre que estuvo a punto de alcanzarla, los espectros familiares arremetían de nuevo devolviéndolo al remordimiento. Quizás en ese callejón la compañía de sus iguales lo confortara. Se durmió y, a partir de entonces, todo transcurriría para él igual que si fuera un solo día y una sola noche, largos e idénticos; con su carga monótona de hambre, calor, cansancio y abulia.Ahora, sentado entre una serie de chozas y un inmenso basurero, veía a través de la reverberación de la luz los ires y venires de los pepenadores afanándose con su costal al hombro. La tarde recién iniciaba. Enmedio del cielo el sol lucía su poder bruñendo la basura, fundiéndola hasta otorgarle el aspecto de un lago cuyas olas doradas se agitaran sin descanso. El olor de los desperdicios se afilaba en el aire, hería los nervios nasales con sus aristas. Él ladeó la cabeza en un intento de mirar más allá de los pepenadores y la comezón se abrió paso en la nuca, molestándolo con un burbujeo en la superficie de la piel, y se rascó hasta impregnar las uñas con un suero escurridizo. El ardor, renovado por la fricción, terminó de alejar de él la somnolencia y ocupó unos segundos en comprender dónde se hallaba. En el infierno. En cuál otra parte podría estar. Se palpó el rostro y lo desconoció a causa de la barba que había crecido libre como un matojo reseco. Echó una ojeada a su ropa cuajada de grasa y lamparones negros, a los tenis por cuyas suelas se asomaban los dedos de los pies. Tampoco logró encontrar nada conocido en esas manos llenas de ampollas y ronchas. Resolló con resignación. No era capaz de reconocerse, aunque algo en su interior le aseguraba que ya irían surgiendo, poco a poco, los retazos de sus recuerdos.Aguzó la mirada para visualizar las siluetas borrosas que se desplazaban en el montón de basura. Al distinguir en ellos el mismo color negruzco sobre los harapos que los cubrían, la misma maraña peluda en el rostro, la mirada oscilando en un ámbito sin memoria y la inercia de movimientos por la que se deslizaba su propia vida, supo que se trataba de sus iguales.

Uno de los pepenadores le sonrió y él sintió que sus músculos faciales también se distendían para dejar al descubierto los dientes. Las burbujas de la picazón comenzaron a reventar de nuevo en la nuca, pero ahora sí pudo contener el impulso de sus manos. No debía rascarse. Lo que necesitaba era un poco de alcohol o aguardiente para disminuir el escozor. Así lo había hecho los últimas días. ¿O alguien lo había curado? Recordaba entre brumas una ternura brutal, caricias ásperas sobre la piel escoriada, lumbre cruda vertida en la carne viva entre risas cálidas y miradas de alivio. Una mujer, seguro. Una mujer que ya no estaba, que se había ido en la parte trasera de un camión que la llevaría lejos, a las afueras de la ciudad, a la carretera, quizá más allá todavía, hasta otra ciudad, a Laredo. Sí, a Laredo.

Nostalgia dell’ombra
traduzione di Angela Masotti

Aveva perso la nozione del tempo fin dalla notte in cui, ubriaco di alcol e cemento, tormentato dal ricordo ancora fresco di Victoria, incalzato dal lampeggiante di una pattuglia che lo perseguitava col suo bagliore intermittente, aveva cercato rifugio in un vicolo. Era avanzato correndo nell’oscurità, senza badare a dove metteva i piedi, ed era inciampato in qualcosa che assomigliava a un sacco della spazzatura. Era caduto, battendo la testa per terra. Sicuro che la pattuglia lo stesse seguendo, aveva cercato di tirarsi su, ma il sangue che gli sgorgava dalla fronte gli aveva velato la vista con una nebbia rossa. Si era portato la mano alla ferita e aveva toccato il liquido tiepido. Non sentiva dolore, solo un senso di sorpresa per quella nuova bocca che gli si apriva in un macabro sorriso sotto l’attaccatura dei capelli, sbavando una saliva pastosa di un rosso vivo. Aveva tentato di nuovo di alzarsi sulle sue gambe ed era stato allora che aveva visto i corpi: sparsi sul terreno, alcuni inerti, altri che sembravano contorcersi, gemendo e mormorando preghiere incomprensibili in mezzo ad atroci sofferenze. Il buio, la vista annebbiata e gli stracci che avvolgevano i corpi non gli consentivano di scorgerne i volti, ma l’odore di putrefazione e il rantolodei loro respiri gli avevano fatto comprendere che quello era un luogo di espiazione, di castigo: un posto riservato ai demoni e alle anime che hanno ormai abbandonato il mondo degli uomini.Allora, invece di rimettersi in piedi, si era disteso, sistemandosi tra due corpi, aspirando i loro umori tiepidi, invocando un sonno che facesse finalmente svanire i volti della moglie e dei figli, che gli si paravano davanti a ogni passo. Aveva passato giorni e giorni a bere senza mangiare niente, aveva vagato per le strade inseguendo la smemoratezza, ma ogni volta che era sul punto di afferrarla, gli spettri familiari lo assalivano di nuovo per ricacciarlo nel rimorso. Forse in quel vicolo la compagnia dei suoi simili poteva dargli conforto. Si era addormentato, e a partire da quel momento il tempo sarebbe trascorso per lui come fosse un solo giorno e una sola notte, lunghissimi e identici, con il loro monotono carico di fame, caldo, stanchezza e abulia.Adesso, seduto tra una fila di baracche e un’immensa discarica, vedeva attraverso il riverbero della luce il viavai dei raccoglitori di rifiuti, che frugavano tra la spazzatura con i loro sacchi sulle spalle. Era primo pomeriggio. Alto nel cielo, il sole dispiegava tutta la sua potenza arroventando l’immondizia, fondendola fino a trasformarla in un lago le cui onde brunite si agitavano senza tregua. L’odore dei rifiuti si acuiva nell’aria, aggredendo i nervi con esalazioni pungenti. Lui inclinò la testa per guardare oltre i raccoglitori e il prurito cominciò a prenderlo alla nuca, provocandogli un fastidioso brulichio sulla pelle che lo spinse a grattarsi con foga, fino a impregnare le unghie di un siero vischioso. Il bruciore, ravvivato dallo sfregamento, finì per scuoterlo dalla sonnolenza e ci mise qualche istante a capire dove si trovava. All’inferno. Dove altro poteva essere? Si tastò la faccia e non la riconobbe per via della barba, cresciuta liberamente come un cespuglio rinsecchito. Gettò un’occhiata ai suoi vestiti macchiati di unto e patacche nere, alle scarpe da tennis dalla cui suola spuntavano le dita dei piedi. E non riuscì a trovare niente di familiare neppure in quelle mani coperte di lividi e bolle. Sospirò con rassegnazione. Non poteva riconoscersi, anche se qualcosa dentro di lui gli assicurava che i frammenti dei ricordi sarebbero poco a poco risorti.

Aguzzò lo sguardo per mettere a fuoco le sagome indistinte che si aggiravano sopra la montagna di spazzatura. Vedendo in loro lo stesso colore nerastro degli stracci che aveva addosso, lo stesso groviglio peloso sul volto, lo sguardo vagante in uno spazio senza memoria, l’inerzia dei movimenti, tutto ciò che era ormai divenuto la realtà della sua vita, seppe che quelli erano i suoi simili.

Uno dei raccoglitori gli sorrise, e anche lui sentì i muscoli facciali distendersi in una smorfia che gli scopriva i denti. Il prurito riprese a ribollirgli sulla nuca, ma stavolta riuscì a trattenere l’impulso delle mani. Non doveva grattarsi. Aveva solo bisogno di un po’ di alcol o di acquavite, per attenuare il bruciore. Aveva fatto così negli ultimi giorni. Oppure qualcuno l’aveva curato? Ricordava tra le nebbie della mente una tenerezza brutale, aspre carezze sopra la pelle escoriata, la carne viva messa allo scoperto, tra calde risate e sguardi di conforto. Una donna di certo. Una donna che non c’era più, che se n’era andata sul cassone di un camion che l’avrebbe portata lontano, fuori dalla città, o forse ancora più in là, fino a un’altra città, a Laredo. Sì, a Laredo.

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